Selezione dall’originale e traduzione a cura di Loris Tassi.
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- L’eredità di Saer
È molto difficile imitare il respiro di Saer per uno che non sia asmatico. Frasi ora lunghe, ora brevi, separate da virgole. Nel costruire la sua prosa Saer segue una metrica e una cadenza, un ritmo e un tempo particolari. Per i suoi romanzi Saer reinventa la sintassi e predilige un tono che rimanda ai ricordi. Saer costruisce le frasi adeguandole alla lunghezza del suo respiro. Molti copiano il suo topos “paese piccolo, inferno grande” (una sorta di Faulkner santafesino privo di colore locale), ma i più non fanno che copiare quel particolare fraseggio. Saer descrive il dettaglio di un dettaglio, poi il dettaglio del dettaglio del dettaglio e lo fa in modo ossessivo, fino all’esasperazione, ed è così che racconta la realtà. Si ispira al Nouveau roman (soprattutto a Robbe-Grillet, ma anche a Sarraute e in misura minore, almeno credo, a Claude Simon). A volte interrompe la narrazione e congela il tempo nella descrizione di un istante. In questo modo Saer produce una frantumazione psicotica della realtà. Come disse William Carlos Williams: «Nessuna idea, se non nelle cose». La narrazione al presente intensifica il tutto. Saer utilizza il presente dell’indicativo per raggiungere uno scopo preciso: il tempo sembra trascorrere con maggiore lentezza, o meglio: più lentamente. Più che romanzi, i romanzi di Saer sono campionari. Come ogni monomaniaco, lo scrittore narra la stessa scena in continuazione, anche se questa scena cambia in continuazione. Di conseguenza le sue narrazioni non sono oniriche ma sonnolente, e in alcuni casi addirittura soporifere, perché raccontano risvegli, non riproducono la logica del sogno ma ricreano l’atmosfera della siesta, una scena che si solidifica in un languido pomeriggio estivo. Saer culla e ninna il lettore con le sue frasi: la sua prosa ha il ritmo dell’insensatezza della finzione.
- César Aira, o del racconto
Aira predilige una prosa scolarizzata, neutra, quasi trasparente, che non distrae il lettore ma lo avviluppa invece con la grazia delle sue frasi. Aira elabora una poetica dell’inafferrabile che sfugge a coloro che tentano di imitare i suoi procedimenti. La prosa di Aira è come un vetro iridescente che mostra solo i giochi dell’immaginazione. Aira scrive senza sforzo, o fa di tutto per dare questa impressione ai lettori, e questa è la formula della felicità che esibisce in tutte le sue narrazioni. La struttura paradossale delle sue frasi ha l’effetto di una rivelazione, e sembra sempre rivelarci una verità, sebbene questa verità sia solo apparente. Le narrazioni di Aira non sono romanzi brevi ma racconti lunghi, lo sono perfino La liebre ed Ema, la cautiva, caratterizzati da un tono che rimanda all’infanzia[1]. Aira non racconta mai quello che è accaduto, ma quello che accadrà. Tuttavia, a volte inverte le parti: la narrazione, ora ribaltata, si configura come una fuga in avanti. Capovolgendo la storia, raccontando ciò che è accaduto come se fosse ciò che accadrà, fa in modo che tutto possa accadere – e così, giustifica e ridefinisce, a ritroso, ciò che ha raccontato come se non fosse ancora accaduto. Ha anche delle idee, delle grandi idee, che sono letterarie e non possono essere prese sul serio al di fuori della cornice che le contiene. Aira finge di pensare per continuare a scrivere, ma le sue riflessioni sono un altro aspetto della finzione. Le migliori battute di Aira non sono nemmeno battute, perché, contrariamente a quello che molti credono, le buone battute non fanno ridere ma obbligano a pensare. Fin dall’inizio Aira è riuscito a ingannare il mercato spacciando conigli per lepri, ma i suoi conigli sono leporini e si prestano alla confusione. Aira non inventa nulla, non ne ha bisogno. Come disse Rosa Bertin: «È nuovo solo quello che abbiamo dimenticato». Aira è una macchina che sistematizza tutto: dalla fuga in avanti di Copi alla teorizzazione borgesiana. Non crea i suoi precursori, piuttosto li diluisce nella sua scrittura e li assimila. Uno dei suoi segreti consiste nel collocare ciò che è noto in un luogo inatteso affinché appaia come nuovo, un poco alla maniera dei surrealisti o come il suo vero maestro, che non è Osvaldo Lamborghini ma Marcel Duchamp: Aira è più un artista, nel senso classico della parola, che uno scrittore.
- Laiseca, il genio massimo della vita stessa
Laiseca non è uno scrittore del delirio. Lo possono definire così solo quelli che non lo hanno letto o non lo hanno capito, o quelli che lo hanno preso troppo sul serio. Il suo realismo “delirante” deve intendersi come realismo sfasato, dislocato, anche se lo spostamento riguarda il piano delle ipotesi. Laiseca coglie il nucleo delirante del potere e lo sviscera spingendosi fino alle estreme conseguenze: dalle varie possibilità scaturiscono le trame dei suoi romanzi. Laiseca dimostra che anche un genio può scrivere bene e questo lo rende unico. Non è come Aira e Saer, che scrivono fin troppo bene. Laiseca inventa macchine stravaganti e scrive in una lingua privata, intraducibile, come ogni grande poeta. I romanzi di Laiseca sono romanzi sul sapere, sulla conoscenza. Ma c’è un altro aspetto della sua opera interessante quanto la sua erudizione. Laiseca utilizza alcune parole come leitmotiv, o come un ritornello. Faccio un esempio: «ficona». Che scatena un’associazione: «Che ficona aveva la vecchia!», e via di seguito. È come un Raymond Roussel che, abbandonato il suo procedimento di scrittura, si fosse lasciato guidare dall’intuizione o dall’orecchio. Ma anche quando procede a tentoni, Laiseca non sbaglia mai, più va avanti, più i suoi romanzi si uniscono e si confondono in un amalgama indivisibile, e tutto torna. Laiseca ha scritto il miglior romanzo della letteratura argentina – Los sorias – ma anche El jardín de las máquinas parlantes, un romanzo perfetto, che può essere letto tutto d’un fiato nonostante sia di ottocento pagine. È come se volesse mettere in chiaro una cosa: chi è ricco può donare perle ai porci.
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[1] Aira 1981; Aira 1991.
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Bibliografia
Aira 1981 = C. Aira, Ema, la cautiva, Buenos Aires, Editorial de Belgrano, 1981.
Aira 1991 = C. Aira, La liebre, Buenos Aires, Emecé, 1991.
Laiseca 1993 = A. Laiseca, El jardín de las máquinas parlantes, Buenos Aires, Planeta, 1993.
Laiseca 1998 = A. Laiseca, Los sorias, Buenos Aires, Simurg, 1998.
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Ho adorato questo articolo e le parole che sono state usate per descrivere cosa si è provato leggendo questi scrittori.
Ho come un’irrefrenabile voglia di continuare a leggere e immergermi in ognuno di loro, vorrei che le loro parole ricoprissero i miei pensieri. Questo è quello che mi ha suscitato.
Ottimo articolo