C’è qualcosa che leggendo Molloy[1] di Samuel Beckett mi porta verso L’ultimo lettore[2] di Ricardo Piglia: il rapporto tra chi è ultimo e penultimo, ossia tra lettore e scrittore. Tenendo presenti due cose: la parola penultimo in Beckett è una chiave di volta, un modo per entrare dentro il senso della sua opera; per Piglia la parola ultimo identifica il ruolo che svolge il lettore nel lungo processo che porta dalla scrittura alla decifratura del messaggio, che può avvenire secondo varie modalità, a seconda delle intenzioni dello scrittore, che di volta in volta si immagina il proprio lettore intento alla risoluzione dell’enigma delle sue parole. Spesso, nella lettura del saggio, questa parola porta con sé anche il senso di unico o di prescelto, quasi fatale, come nel caso di Felice Bauer per Franz Kafka. Una cosa però è certa: la parola ultimo non identifica mai la scrittore, che sembra sempre alla ricerca di quell’animale intelligente, il lettore, che egli sogna ogni volta che si mette a scrivere.
Ne L’ultimo lettore Piglia tratta, dunque, una serie di vicende di lettori, reali o celati tra le pagine della letteratura. Tra tutti ne terrò in considerazione uno in particolare, in «Lettori immaginari», in cui si tratta della figura del detective come prototipo del perfetto e ultimo lettore (per essere brevissimi), e mi rifarò alle altre quando sarà necessario.

I

Per capire come questo rapporto tra penultimo e ultimo si articolasse dentro Molloy, mi sono messo alla ricerca di notizie sulla sua composizione. Tre cose mi hanno colpito in particolare: Beckett racconta che nel 1945 ha un’illuminazione: un giorno, mentre si trovava nella stanza di sua madre (per analogia Molloy inizia copiando questa scena), comprese quale sarebbe stata la sua letteratura, la sua poetica. Come egli stesso dirà: «Ho concepito Molloy e ciò che ne è seguito il giorno in cui presi coscienza della mia stupidità. Fu allora che cominciai a scrivere le cose che sentivo dentro»[3]. Le cose di dentro contro le cose di fuori. Beckett prese una posizione molto forte rispetto al suo passato, alla devozione letteraria joyciana. Fece quel passo decisivo che è mettere alla prova la propria vita dentro la letteratura. Un’altra notizia biografica riguarda proprio il periodo di più stretti rapporti con Joyce (precedente quindi alla stesura di Molloy), quando Beckett fu traduttore di Finnegans Wake:

Finnegans Wake è un laboratorio che sottomette la lettura alla prova più estrema. Man mano che ci si avvicina, quelle righe sfocate si trasformano in lettere e le lettere si sovrappongono e si mescolano, le parole si tramutano, cambiano, il testo è un fiume, un torrente molteplice in costante espansione. Leggiamo resti, brandelli sparsi, frammenti, l’unità del senso è illusoria (Piglia 2007, pag. 18).

Così Piglia in «Cos’è un lettore?». In Molloy avviene l’esatto opposto: l’occhio si allontana dalla parola esatta e metonimica, preferendo la sfocatura. Neanche l’illusione del senso, sebbene non sia negata, viene risparmiata: l’illusione muta, diviene assenza. Beckett lascia che sia Molloy a raccontare la sua inadeguatezza a trattenersi ancora per lungo tempo nel «laboratorio», e lo esprime per mezzo di una sottile ironia tragica:

E senza arrivare a dire che vedevo il mondo sottosopra (sarebbe stato troppo semplice), è certo che lo vedevo in un modo esageratamente formale, senz’essere per questo minimamente un esteta, o un artista. E avendo un occhio solo su due che funzionasse più o meno decentemente, coglievo male la differenza che mi separava dall’altro mondo, e spesso tendevo la mano verso ciò che si trovava decisamente fuori portata, e spesso mi scontravo con dei solidi appena visibili all’orizzonte. Ma anche quando avevo tutt’e due gli occhi ero così, mi sembra, ma forse no, perché è lontano quel periodo della mia vita, e ne conservo un ricordo più che imperfetto. (Beckett 2012, pag. 71)

Attraverso la vista offuscata di Molloy, Beckett vede sé stesso come uno qualsiasi che attende, che continuamente smette ogni speranza, non ultima quella di naufragare, di essere ultimo e solo. Su un fatto Molloy sembra avere le idee chiare: egli non è un naufrago, non è Ulisse, tanto che afferma (ossia scrive, perché Molloy è lo scrittore):

poi c’è l’angoscia del ritorno, non dirò dove, non posso, forse all’assenza, bisogna ritornarci, è tutto quello che so, non mi sta bene restandoci, non mi sta bene andando via. (Beckett 2012, pag. 59)

E poco più avanti, quand’è invitato a salire «sulla nera nave di Ulisse» e gli viene concesso la libertà di trascinarsi a poppa a guarda la scia della nave «che, non allontanandomi da nessuna patria, non conduce verso nessun naufragio» (Beckett 2012, pag. 72). È chiaro che in Molloy non c’è niente di eroico, neanche la disperazione, egli è indifferente a Ulisse, sebbene lo segua; preferisce guardare la scia, seguirne la traccia finché non si perde di nuovo nel mare.
Beckett ha trovato dunque con Molloy la sua posizione, anche se va detto che la relazione con Molloy è ambigua, non sempre è giustificabile, e là dove la ragione non riesce a concepire un rapporto di causa-effetto subentra la finzione, che deforma, crea maschere, allegorizza. Si è continuamente spinti da un lato all’altro di una proposizione, umoristicamente se ne sondano i confini, fino a che questi non scompaiono come la scia della nave di Ulisse. E, una volta dissolti, i confini creano mostri, apparizioni – l’ossessione della madre, per esempio, che dovunque nella prima parte serpeggia e, quando sembra vicina, si scopre lontana, e quand’è lontana, è morta. Il laccio allegorico intorno alla madre è dei più stretti, non è solo il falso scopo della ricerca di Molloy, che è continuamente combattuto tra la prosecuzione della ricerca e il suo abbandono, tormentato più dall’incertezza riposta nella sua ragione che da qualche dubbio filosofico. Anzi, Molloy parla di fisiologia, del modo in cui scopre di aver posseduto un corpo fino ad allora sconosciuto, ossia un corpo per il quale non aveva provato nessun interesse, un corpo deforme con una gamba tesa sempre più a una paralisi totale; il miscuglio degli organi interni e l’intruglio intestinale, che forse è la sola metafora filosofica di cui non si cercano effetti o cause ulteriori.
Che cosa significano, dunque, la madre e il corpo? Molloy sa che la madre è morta, quando inizia a scrivere il lungo flusso, che è tutta la prima parte del romanzo. Beckett, riprendendo la relazione, sa che non si dà più possibilità di una scrittura elevata, che contempli dentro di sé le forme del mondo reale e finto, leopardianamente (latinamente) creato; che non si dà la traccia necessaria per inseguire la tradizione, poiché la traccia, la scia, è sempre più labile. La madre rappresenta, quindi, senza più quell’alone misterico e l’amore tragico che ne consegue, la letteratura morta e seppellita, quello sforzo vano che si è protratto prima di ogni conflitto umano, che l’ha creato e respinto fino quasi a costringere la memoria ad accettarlo come fatto, accaduto, non più accidente sperimentato, ma poltiglia di memoria. Non c’è scampo, pare essere l’assunto nichilistico. Eppure non tutto è vuoto. L’assenza non è mai il vuoto o lo spazio vuoto. Molloy ha al contrario una precisa conoscenza del suo corpo, ed è proprio il corpo che nega l’idea del vuoto e del nulla, poiché il nulla è senza scampo, non insignificante. Alla fine della prima parte, in una scena di bosco, Molloy si sente a suo agio standosene steso e pensando al cerchio – immagine del ritorno – e in quella posizione si sente meglio, nel senso che percepisce meglio il suo corpo, ne descrive la salute in uno dei momenti in cui è fortissima la vis comica, che striscia sotto tutte le parole del romanzo:

E poi non vorrei dare un’idea sbagliata della mia salute, che senza essere quella che si dice florida, o di ferro, in fondo era d’una robustezza inaudita. Perché se no come avrei fatto a raggiungere l’enorme età che ho raggiunto? Grazie a qualità morali? A un’igiene appropriata? All’aria aperta? Alla sottoalimentazione? Alla mancanza di sonno? Alla solitudine? Alle lunghe urla mute (è pericolo urlare)? Al quotidiano desiderio che la terra m’inghiottisse? Ma via. Il destino è rancoroso, ma non fino a questo punto. Guardate mamma. Di cosa è crepata, alla fine. Me lo chiedo. Non mi meraviglierei se l’avessero seppellita viva. Ah, me la ha ben trasmesse, quella vacca, le sue indefettibili porcherie cromosomiche. (Beckett 2012, pgg. 119-120)

Beckett non ha nessuna pietà nei confronti della madre-letteratura, la chiama «vacca», mentre la sua eredità sono le «porcherie cromosomiche», poiché la madre gli ha insegnato il cerchio e tutto ciò che è rotondo, e che ciò che ritorna è primo e ultimo insieme, mente ora Beckett-Molloy dice che l’ultimo non esiste, se esistesse se ne avrebbe una minima conoscenza (qualche anno più tardi questa minima conoscenza sarà investita del nome di Godot); se fosse reale avrebbe un corpo, o almeno potrebbe essergli attribuito; eppure queste restano ipotesi non confermabili, solo ciò che c’è prima della fine, che è penultimo, esiste.

La scena finale della prima parte, la rassegnazione di Molloy, è sublime, la forma compiuta dell’indifferenza e dell’abbandono. Molloy, caduto in un fosso allo stremo delle forze, tenta di ritornare almeno con la memoria all’inizio, ai suoi primi incontri quando s’era imbarcato nella missione di ricerca. Il suo tentativo è inutile e così chiude:

Non me la prendevo, mi ritornavano in mente altre scene della mia vita. Mi sembrava che piovesse, ci fosse il sole, in alternanza. Proprio un tempo primaverile. Avevo voglia di tornare nella foresta. Oh, non proprio una vera voglia. Molloy poteva restare là dov’era. (Beckett 2012,  pag. 136)

II

La terza notizia biografica chiarisce la struttura dell’opera e il nesso con L’ultimo lettore: Beckett era solito leggere romanzi polizieschi per rilassarsi. Ancora una volta il Beckett lettore, anche se in questo caso lo scopo della lettura è ben altro rispetto a quello di Finnegans Wake. Inoltre: lettore di letteratura di genere, nella quale impianta Molloy come una bomba.
Molloy formalmente è pensato e strutturato come un romanzo poliziesco, e insieme ne è anche la farsa. Ma per facilitare la comprensione di questo capovolgimento, mi affido a Ricardo Piglia che in «Lettori immaginari», terzo saggio de L’ultimo lettore, traccia con chiarezza la figura chiave del genere poliziesco, il detective privato. Nel romanzo di Beckett il suo nome è Moran, ma tornerò più avanti sulla sua vicenda. In Lettori immaginari la tesi di Piglia, trova in questo saggio probabilmente la sua formulazione più libera, non vincolata a un qualche vizio dello scrittore. Di fatto negli altri saggi che compongono L’ultimo lettore c’è continuamente, da Borges a Joyce, la presenza forte dello scrittore, che ricerca o addirittura si inventa il proprio lettore o quasi gli impone di essere tale – che anche Beckett ricercasse il proprio lettore non mi pare che sia un’ipotesi valida, perché che cosa cercasse diviene evidente solo alla fine della sua lunga vita di poeta, ed è espresso negli ultimi versi di Comment dire? (Quale è la parola?). In Lettori immaginari, invece, il lettore è dentro il racconto o il romanzo, lo scrittore non lo sta cercando fuori, nel mondo, né lo ricrea da qualche parte dentro di sé o lo ritrova nei propri ricordi. Il lettore diventa un personaggio della vicenda, è il detective; e il primo moderno tra tutti di questi lettori-detective è Dupin di Edgar Allan Poe. Così ne scrive Piglia:

Dupin può essere considerato la preistoria o l’embrione della serie di celibi affascinati dal desiderio di conoscenza: lo scapolo solitario, stravagante si unisce qui – come Bouvard e Pécuchet ma anche come Holmes e Watson – a un amico col quale convive. (Piglia 2007, pgg. 68-69)

Proseguendo nella descrizione del lettore-detective:

La chiave è che Poe ha ideato una nuova figura e in questo modo ha inventato un genere. L’invenzione dell’investigatore è la chiave del genere. (Piglia 2007, pag. 70)

e supportato anche da un giudizio di Borges sul genere poliziesco, in cui sostiene che il detective vive «in un mondo diverso da dove sogliono vivere gli uomini»[4], Piglia continua:

Non rientra in alcuna istituzione sociale, nemmeno nella più microscopica, la cellula elementare della famiglia, perché questa qualità anti-istituzionale (non-istituzionale) garantisce la sua libertà. (Piglia 2007, pag. 70)

Il lettore-detective che si profila dalle pagine dei romanzi polizieschi assume quindi le sembianze di un uomo che vive da solo, preso più dal ragionare che da qualsiasi altro interesse (più tardi, all’amico fidato gli si affianca e si oppone la donna), un uomo nel quale la lettura non è un semplice atto di unione tra senso e segno, ma è sondare il mistero che si cela nell’incastro dei due. Questo mistero è racchiuso nella realtà in cui il lettore-detective è immerso e agisce: la città metropolitana. In fondo, non si dà detective senza la metropoli:

Nello spazio della massa e della moltitudine anonima nasce Dupin, il soggetto unico, l’individuo eccezionale, colui che sa vedere (ciò che nessun altro vede). O meglio, colui che sa leggere ciò che è necessario interpretare, il grande lettore che decifra ciò che sfugge al controllo. (Piglia 2007, pag. 72)

Con Dupin il genere è appena nato, bisognerà attendere altri scrittori di polizieschi o di gialli, bisognerà attendere il Novecento per la fioritura di quei detectives che hanno fatto la fortuna del genere (Mrs. Marple, Poirot, Maigret ecc.). Eppure nel Novecento il genere cambia e si arricchisce di caratteri che lo renderanno diverso da quello del secolo precedente. Una cosa in particolare permetterà questo passaggio: il denaro. Se nei racconti di Poe il detective non è mai uno stipendiato, un prezzolato, ma un uomo libero che agisce per il solo gusto della conoscenza, del rischio che questa comporta, all’inizio del Novecento e in particolare nell’opera di R. Chandler, il detective viene a contatto proprio con il mondo del denaro; il detective è diventato in breve tempo un mestiere. Il denaro, pur non essendo un elemento positivo, tuttavia serve come pietra di paragone tra i detectives, distingue il corrotto dall’integro, l’opportunista dall’uomo capace di rinunciare, come il Marlowe di Chandler, anche a cifre esorbitanti, e tutto ciò perché:

Se il romanzo poliziesco classico si struttura a partire dal feticcio dell’intelligenza pura e valorizza sopra tutto l’onnipotenza del pensiero e la logica astratta ma imbattibile dei personaggi incaricati di proteggere la vita borghese, negli hard-boiled statunitensi tale funzione si trasforma, e il valore ideale diventa l’onestà, ‘la dignità’, l’incorruttibilità. Del resto si tratta di un’onestà legata esclusivamente a questioni di denaro. L’investigatore non esita ad essere crudele e spietato, ma il suo codice morale è fermo su un solo punto: nessuno potrà corromperlo. (Piglia 2007, pag. 86)

Sembra quasi ovvio, a questo punto, dire che tra Dupin e Marlowe non ci sia continuità, che il primo rappresenti un modo di essere, una maschera, che non è più possibile nel mondo moderno; in realtà Marlowe (anch’egli appassionato lettore) è solo l’evoluzione di Dupin, di quell’uomo scaltro che sa adattarsi ai cambiamenti proprio perché ha imparato a leggere più a fondo di quanto la realtà, completamente diversa da quella borghese descritta da Poe e nella quale agisce Dupin, lasci apparire. Così Piglia chiude su i due detectives:

Dupin è una versione del poeta maledetto, un solitario uomo di lettere, un artista che vive nella pure indipendenza e per questo sarà in grado di intervenire nel mondo sociale e soccorrere la società dalla quale si è allontanato. E Marlowe è la sua reincarnazione ammodernata. È immerso nel mondo dell’azione pura, tanche in lui quasi non si scorgono i tratti del lettore e dell’uomo di lettere, ma certi segnali trapelano. Da qui la sua melanconia: è stato espulso volontariamente. (Piglia 2007, pag. 89)

La seconda parte di Molloy si apre con queste parole caustiche:

È mezzanotte. La pioggia sferza i vetri. […] Mio figlio dorme. Che dorma. Notte verrà in chi anche lui, non riuscendo a dormire, si metterà al suo tavolo da lavoro. Io sarò dimenticato. (Beckett 2012, pag. 137)

Moran fa la sua comparsa nella storia di Molloy improvvisamente, nel senso che fino ad allora Beckett non ha fatto un solo accenno a qualcuno (un detective, addirittura) che inseguisse Molloy. Il cambio di tono e di registro, poi, è così sconcertante all’inizio che è difficile capacitarsi di leggere lo stesso libro. Anche in questa parte è scritto tutto in prima persona: a parlare è lo stesso Jacques Moran che stila un rapporto (l’ennesimo e più importante) sul caso Molloy. Anche lui, come Molloy, scrive – e l’analogia[5] è confermata almeno in altri due aspetti: il tempo e le circostanze. La relazione di Moran inizia proprio dal giorno in cui ricevette «l’ordine di occuparsi di Molloy.» Anch’egli come già Dupin, compare mentre si accinge a leggere o ha da poco finito (questo non viene detto), ma l’ingresso è lo stesso, anzi Beckett enfatizza l’alienazione del detective immediatamente. La scena descritta è l’unica di pace e di piacere che c’è in tutto il romanzo.

Era una domenica d’estate. Stavo seduto nel mio giardinetto, in una poltrona di giunco, con un libro nero chiuso sulle ginocchia. […] Tutto era calmo. Neanche un alito. Dai comignoli dei vicini il dumo saliva dritto e azzurro. Rumori rassicurati, un tintinnare di mazze e di palle, un rastrello sulla sabbia d’arenaria, un lontano tagliaerba, la campana della mia cara chiesa. […]
Fu in questa cornice che trascorsero i miei ultimi momenti di felicità e di calma. (Beckett 2012, pgg. 138-139)

Inoltre, come Marlowe, Moran viene ingaggiato e pagato da Youdi (il capo, il lettore delle sue relazioni), di cui un certo Gaber è il messaggero, l’intermediario. Fare il detective è diventato un mestiere. Fin qui pare essere tutto o buona parte in linea con la precisa descrizione di Piglia, eppure non è così. Molloy, come detto, è un ribaltamento del personaggio che ha creato il genere.
Che fine ha fatto, dunque, questo lettore-detective nel romanzo di Beckett? Dalle prime parole del romanzo si fanno evidenti alcuni punti di rottura con il tipo del detective di Poe o di Marlowe: Moran scrive una relazione sui fatti, differentemente da quanto accade tra Holmes e Watson, dov’è il secondo che propriamente scrive, mentre il detective sembra quasi che non abbia tempo o addirittura voglia, poiché ciò che lo intriga è solo la soluzione dell’enigma; Moran ha un figlio, fatto che a sua a volta apre a due considerazioni: 1) il figlio rompe lo status di scapolo, tipico del personaggio; 2) egli non è l’ultimo, pur essendo il solo a cui poter affidare il caso Molloy (e in ciò continua l’analogia, fino a sfiorare la similitudine con Molloy verso la fine del romanzo). Il secondo punto è ciò che mi interessa. In tutta questa parte investigativa il rapporto padre-figlio è la chiave di lettura che Beckett impone, non ce n’è un’altra. La storia stessa di Molloy è come se passasse in secondo piano. Questa imposizione è dettata dal fatto che la presenza del figlio intralcia la ricerca del padre: Moran sarà costretto a portarselo dietro, perché ciò gli viene ordinato ed egli non può sottrarsi all’obbedienza. È Gaber, come accennato, l’intermediario, che arriva la mattina di quella domenica in cui Moran stava rilassandosi leggendo (un poliziesco, come amava fare Beckett?), e gli annuncia il suo nuovo incarico. Questo personaggio ambiguo, mezzo ombra mezzo uomo, non piace a Moran, che vendendolo arrivare non si risparmia a pensare di volerlo prendere «volentieri a scudisciate», insomma non certo quella che si dice una visita gradita. Eppure Moran è un uomo corretto e subito cambia tono, lo invita a sedersi, a fare il suo lavoro di intermediario senz’altro scopo.
Dunque, Gaber estrae il taccuino dove sono scritti gli ordini, legge e commenta. Moran, però, da subito rifiuta, questo caso Molloy non gli piace. Gaber, però, deve insistere – usando anche l’arma della lusinga – e Moran sa che dovrà accettare:

Rifiutare! Ma noialtri agenti ci divertiamo spesso a recalcitrare, tra noi, e a darci delle arie da uomini liberi. (Beckett 2012, pag. 142)

Infine, Gaber annuncia che il figlio dovrà seguirlo e tra i due cala il silenzio. L’illusione del lettore-detective, di colui che sa leggere i segni che stanno fuori, è finita nel momento in cui si fa avanti l’immagine del figlio, ossia dell’inesperienza che causa intralcio e distrazione. Moran sa che dovrà contare sollo sue forze, insomma sulla sua ragione o, meglio, sul ragionamento per risolvere il problema che gli si pone, e che è chiaro non riguarda esattamente e solo Molloy, o meglio che l’immagine di Molloy lentamente sbiadirà, fino a sparire, e quella del figlio prenderà il suo posto.
Beckett continuamente gioca su due piani di riferimento che si scontrano: il piano dell’intellegibile, cioè delle cose che accadono così vicine da non poterle evitare; e il piano dell’impossibile, ossia dell’assenza che qui si manifesterà solo alla fine, quando il figlio non tornerà più, al contrario della prima parte dove l’assenza della madre di Molloy è presente fin dalle prime pagine. I due piani, scontrandosi, slittano l’uno sull’altro, finché il secondo non coprirà per larga parte il primo, lasciandogli però in consegna le ultime battute del libro. Per Moran (o Beckett, le analogie si moltiplicano) la prima cosa da fare è educare il figlio al senso della partenza, ossia alla rinuncia di ciò che sia ha, alla vita come si è conosciuta fino ad allora. Beckett scrive le più terribili parole che abbia letto sulla rinuncia, incastrandole nel vincolo dell’educazione che un padre impone al figlio:

Sollst entheheren[6], ecco la lezione che volevo inculcargli, intanto ch’era giovane e tenero. Magiche parole che fino all’età di quindici anni non avevo neppur mai immaginato che si potessero legare insieme. (Beckett 2012, pag. 165)

È la ragione che parla, o almeno così crede Moran, così scrive Beckett. La stessa ragione che aveva contraddistinto Dupin e Marlowe, la ragione che viene dalla lettura e dall’interpretazione dei fatti, non è più salda come una volta se parla di rinuncia, di educazione, o se si perde nelle divagazioni su argomenti che non concernono la soluzione dell’enigma. Molloy, d’altronde, non appare mai più fisicamente, ma solo come ipotesi della ricerca, finché la sua attesa non sarà sostituita, più avanti quando le cose inizieranno a precipitare irrimediabilmente, dall’attesa del ritorno del figlio. Molloy è un nome e un’ombra, che viene fuori dalla folla. «C’erano in totale» dice Moran, dopo aver cercato Molloy dentro di sé, prima che là fuori nel mondo, «tre, no, quattro Molloy. Quello delle mie viscere, la caricatura che ne facevo io, quello di Gaber e quello che, in carne e ossa, mi aspettava da qualche parte». (Ibidem, pag. 173)

È chiaro l’intento di Beckett: creare continuamente dei doppi: nella prima parte Molloy-madre; nella secondo Moran-figlio (che ha lo stesso nome del padre, Jacques Moran). Qui, si esprime per la prima volta e in maniera decisa il topos dell’assenza, fortissimo in tutta l’opera di Beckett dopo «l’illuminazione del ’45». Solo in ciò che è doppio, che vive dell’altro, può verificarsi l’assenza. Così come Molloy ha sperimentato l’assenza – per essere penultimo, per non avvertire la fine – dovrà accadere anche a Moran. Il figlio, dunque, è necessariamente il doppio. Il suo comportamento, la riluttanza a partire col padre; le costrizioni e le ingiunzioni che questi gli impone; la fuga a metà del viaggio di ricerca; l’abbandono del padre; tutto ciò contribuisce a spostare il destinatario di quelle tremende parole sulla rinuncia dal figlio allo stesso Moran.
E quando il figlio è scomparso, con lui se n’è andato via anche Molloy. Il suo nome, che aveva dato adito a tutta una serie di congetture genealogiche, adesso è taciuto. Moran continua la sua ricerca, e il fallimento gli si para davanti come l’unica soluzione. Scrivere resoconti del suo fallimento diviene d’improvviso la sua sola attività, mentre il suo corpo inizia a cedere al tempo e alle circostanze. Il lettore-detective è scomparso, o forse in questo caso non dandosi ultimo, non essendoci una fine perché qualcuno possa dirsi ultimo, il lettore non esisterà più. Anzi, Moran spera che le sue ultime confessioni, che confutano tutte le precedenti, cioè quelle che egli sta ora scrivendo per mano di Beckett (per suggestione), possano essere lette almeno da Youdi, il capo, il lettore di cui non si hanno notizie, né si conosce l’identità, cui Beckett-Moran non lesina parole di disprezzo:

E a questo misero lavoro di scrivano che non mi compete, mi sottometto per due motivi che non sono quelli che si potrebbero supporre. Obbedisco ancora agli ordini, se si vuole, ma non è più la paura a indurmi. Sì, ho tuttora paura, ma è semmai un effetto dell’abitudine. E la voce che ascolto non ho avuto bisogno di Gaber per farmela trasmettere. Perché è dentro di me, e mi esorta a essere sino alla fine quel fedele servitore che sono sempre stato di una causa che non è mia, e a rivestire pazientemente il mio ruolo fino al più profondo disgusto e alle estreme conseguenze, come io volevo, al tempo del mio volere, che facessero gli altri. E in odio al mio padrone e in spregio dei suoi disegni. (Beckett 2012, pag. 200)

Ne viene fuori, nella parte finale di Molloy, quando Moran abbandonata la ricerca e se ne torna verso casa, che – dismessa ogni facoltà di capire il mondo che sta fuori – l’ultima chance è di ricercare dentro sé stessi. Nel brano citato sopra Beckett-Moran fa riferimento a una voce che gli parla. Non è la prima volta, l’ha già sentita nel giorno in cui il figlio scomparve e da allora si era fatta sempre più evidente, sebbene in principio gli fosse sembrata incomprensibile. È la voce dell’assenza e dell’attesa. Questa nuova voce non gli è stata imposta, non l’ha ricercata interpretando le parole di un qualche libro, non ha niente a che fare con ciò che è stato. La voce spezza la prima analogia tra Beckett e Molloy e stinge invece sempre di più quella tra Beckett e Moran. Quest’ultimo rappresenta la nuova forma della poetica beckettiana, imperniata sull’idea immobile dell’assenza di chi attende che arrivi l’ultimo uomo o l’uomo giusto o la parola che chiuda il cerchio. Il figlio, Youdi, Gaber, padre Ambroise, Marthe (la domestica), sono tutti scomparsi – essi erano il pubblico potenziale[7], cui poter dirigere le proprie mire, ma a Beckett-Moran non interessa altro che chiudersi nella casa decrepita dopo la lunga assenza, e mettersi a scrivere di nuovo tutto inseguendo dentro di sé la nuova voce che gli parla fino ad  accorgersi che le prime parole sembrano anche le prime.

Ho parlato di una voce che mi diceva delle cose. In quell’epoca cominciavo ad andarci d’accordo, a capire cosa voleva. No si serviva della parole che avevano insegnato a Moran da piccolo, che lui a sua volta aveva insegnato al suo piccino. Per cui all’inizio non sapevo cosa volesse. Ma finii per capire questo linguaggio. L’ho capito, lo capisco, forse fraintendendolo. Non è lì il problema. È stata lei a dirmi di fare la relazione. Questo significa che adesso sono più libero? Non so. Imparerò. Allora rientrai in casa e scrissi, È mezzanotte. La pioggia sferza i vetri. Non era mezzanotte. Non pioveva affatto. (Beckett 2012, pag. 269)

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Questo articolo è stato pubblicato su Ô Metis IV – Forme Brevi


[1] Beckett S., Molloy Molloy, Edizione speciale Numeri Primi° ottobre 2012, Einaudi, Torino, 2012.

[2] Piglia R., L’ultimo lettore, Feltrinelli, Milano 2007.

[3] www.samuelbeckett.it

[4] Piglia 2007, pag. 70.

[5] E in più, a giustificare l’analogia, nella prima parte del romanzo Molloy aveva già detto: «Ho sempre avuto il pallino della simmetria». (Beckett 2012, pag.125)

[6] «Devi rinunciare», J. W. Goethe, Faust.

[7] A volte si potrebbe pensare che ho scritto per un pubblico. (Beckett 2012, pag. 259)