Martin Bojowald, fisico e autore di Prima del Big Bang. Storia completa dell’universo (Bompiani, Milano, 2011) discute con Alfredo Zucchi dei punti d’incrocio tra scienza e letteratura: metodo e invenzione, limiti e orizzonti. Al centro, com’è giusto, Nietzsche e i numeri.

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Alfredo Zucchi: Il suo ambito di lavoro è la meccanica quantistica (gravità quantistica a loop per essere precisi), il mio è la letteratura. Cominciamo allora con quello che abbiamo in comune. Nel suo libro Prima del Big Bang. Storia completa dell’universo lei cita spesso Nietzsche: si dà il caso che nel CrapulaClub lo scrittore e filosofo tedesco sia uno degli autori più commentati e letti. C’è un aforisma che Nietzsche ripete spesso nei suoi libri più tardi: “Solo ciò che non ha storia si può definire” (o ancora: solo gli oggetti “ideali” possono essere misurati con precisione). Quest’aforisma non le sembra tremendamente vicino al principio d’indeterminazione, uno dei principi fondamentali della meccanica quantistica?

Martin Bojowald: È così. In fisica si usa pensare gli oggetti fondamentali, come ad esempio l’elettrone, come “ideali” o elementari. Eppure, il principio di indeterminazione rende chiaro che questo punto di vista non è giustificato. Quando si prova a misurare determinate proprietà di un elettrone – come di qualunque altro oggetto, d’altra parte – si nota che non c’è alcun oggetto isolato con caratteristiche assolute. Bisogna considerare l’apparato di misurazione insieme all’elettrone; successivamente, il risultato della nostra misurazione dipende da come abbiamo preparato l’apparecchio, o dalla “storia” dell’esperimento. Ne La genealogia della morale, nello stesso paragrafo in cui è pronunciato l’aforisma che lei ha citato, Nietzsche scrive che non c’è “un solo significato, ma un’intera sintesi di significati” (riferendosi, in questo caso, al concetto di pena). Questa frase mostra un legame ancora più diretto con il principio d’indeterminazione: i risultati dei processi di misurazione non ci forniscono un preciso insieme di proprietà – neppure per un singolo oggetto – quanto piuttosto una “sintesi” di caratteristiche che dipende dal punto di vista. L’idea classica di valori di misurazione esatti o precisi darebbe risultati reciprocamente incompatibili per determinate quantità misurate, come ad esempio la posizione e il momento di un elettrone. Se si utilizza la lezione fornitaci dal principio di indeterminazione, l’esattezza o precisione proprie della fisica classica sono sostituite da ciò che nella meccanica quantistica si chiama “complementarità”, un concetto molto vicino a quello della “sintesi”.

AZ: Lei usa spesso riferimenti letterari nel suo libro Prima del Big Bang: per aprire un capitolo e dargli una cornice concettuale, o per spiegare, per analogia, problemi complessi di matematica o fisica. Ad esempio, quando spiega la sovrapposizione propria della funzione d’onda (legata al famoso esperimento di pensiero del gatto di Schrödinger) attraverso un racconto dove solo alla fine si scopre chi è il soggetto dell’azione (così, per analogia, in un esperimento scopriamo solo alla fine dove si trovi effettivamente la particella che cerchiamo). Letteratura e scienza sembrano aver seguito un percorso analogo quando, a partire dalla fine del diciannovesimo secolo, le avanguardie di entrambe le discipline hanno cominciato a parlare una lingua così distante dal senso comune da creare, con quest’ultimo, una frattura epocale (per senso comune qui intendo il modo in cui gli uomini costruiscono la propria immagine del “mondo là fuori” sulla base degli organi sensoriali).
In letteratura questa tendenza potrebbe essere definita come lo sforzo (o lo sfizio) di superare la “verosimiglianza” – dove verosimiglianza è strettamente legata al principio di causalità: “post hoc ergo propter hoc” (tutti i migliori romanzi dell’inizio del ventesimo secolo furono esempi eccellenti di tale rottura: la Ricerca del tempo perduto di Proust, l’Ulisse di Joyce, L’uomo senza qualità di Musil). In questo senso, che tipo d’impatto ha avuto la letteratura sul suo lavoro? Quali sono – se ce ne sono – i libri e gli autori che l’hanno spinta a diventare scienziato?

MB: Non è un caso che la prima parte del ventesimo secolo sia il mio periodo letterario preferito. Allo stesso tempo, la mia carriera scientifica è iniziata in un modo piuttosto banale. Oggi, mi vergogno quasi ad ammettere che, alle scuole superiori, fui molto vicino a odiare la letteratura non-scientifica. All’inizio, il mio interesse per la scienza derivava dalla possibilità di maneggiare oggetti come il microscopio. Quando m’immersi più in profondità nella letteratura scientifica che mi era disponibile, arrivai alla fisica tramite la biologia e la chimica.
Quello che mi affascinava di più nelle fisica era la sua componente matematica e la possibilità di operare predizioni precise basate su calcoli astratti. Finite le scuole superiori, decisi che avrei studiato la fisica. L’unico tipo di letteratura non-scientifica che leggevo all’epoca era la filosofia: all’inizio principalmente i positivisti, i quali fornivano i fondamenti della scienza. Il primo autore a stuzzicare il mio crescente interesse per la letteratura fu Nietzsche.
Oggi, posso dire che la letteratura ha un impatto forte sul mio lavoro. Di sicuro mi ha aiutato a sviluppare uno stile più chiaro per i miei saggi scientifici. A volte, inoltre, accade che un libro m’ispiri un argomento di ricerca o mi aiuti a pensare un determinato problema. Non ho ancora trovato una relazione diretta che mi porti dalla letteratura alla scienza, ma è anche vero che molti dei problemi che cerchiamo di risolvere nella cosmologia quantistica  sono stati già pensati e approcciati in vari modi. Di recente, ad esempio, è venuto fuori da un esperimento che, secondo determinati modelli, il tempo scompare nei primi istanti dell’universo e non, come nel caso big bang, nel quadro di una singolarità[1], per un periodo brevissimo, bensì per un periodo esteso. In questo senso, ho trovato molto interessante leggere degli stati di assenza di tempo in Il pianeta dei nascituri di Werfel.

AZ: In effetti, gli autori dei romanzi che le ho citato prima sembrano ossessionati dall’idea del tempo. La relatività ristretta e la relatività generale di Einstein vennero fuori quasi in contemporanea, modificando del tutto il modo in cui ci figuriamo il tempo e lo spazio, rispetto al modo in cui questi erano rappresentati da Newton e da Kant. Vorrei evitare di cadere in generalizzazioni e semplificazioni estreme, tuttavia mi pare ci sia una forte convergenza intellettuale in questo caso. Come descriverebbe, in generale, il modo in cui scienza e letteratura s’influenzano reciprocamente?

MB: Credo che la scienza possa trarre beneficio dalla letteratura molto più di quanto non faccia ora. La via opposta, dalla scienza alla letteratura, mi sembra invece piuttosto cementata. Le grandi scoperte scientifiche spesso trovano spazio in letteratura velocemente. Riguardo alla relatività, ad esempio, ci sono passaggi precisi e ammirabili in diversi libri di Thomas Mann.
Allo stesso tempo, un beneficio procedurale che la scienza potrebbe trarre dalla letteratura è la grande tradizione della critica letteraria. Nella scienza, gran parte della critica avviene tramite recensioni anonime o a porte chiuse. Molti ricercatori considerano la parte critica come un dovere e un obbligo piuttosto che come un contributo essenziale tout court. La critica non è soltanto un’arte, può anche essere più utile e istruttiva rispetto alla maniera auto-apologetica con cui spesso vengono presentati i risultati di ricerche scientifiche (e le falsificazioni non sono una rarità). Un processo di recensione e critica scientifica più vicino alla critica letteraria potrebbe rendere la scienza ancora più rigorosa.

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AZ: In Prima del Big Bang c’è un passaggio molto interessante dove lei discute i limiti della relatività generale (la sua singolarità). Cito: “La materia curva lo spazio, e il suo stesso movimento è influenzato dalla curvatura. Il ruolo dello spazio-tempo, ora inteso come un oggetto fisico, è spesso comparato a un romanzo in cui uno dei personaggi è il libro stesso.”
In un passaggio successivo, nuovamente sulla singolarità e il suo impatto sulla teoria della relatività generale: “Rispetto a un romanzo, questo vorrebbe dire che il libro stesso non solo è un personaggio ma che, in corso d’opera, cesserà di esistere.”
In I canti del caos, romanzo di Antonio Moresco inedito in inglese, l’autore riesce, attraverso una serie di stratagemmi narrativi, a costituire la “singolarità” che lei descrive: il libro stesso è un personaggio del romanzo; a un certo punto, il più importante fra tutti i personaggi. Il risultato di questo procedimento è devastante.
La mia domanda è la seguente: mentre nella scienza, l’esistenza di simili singolarità (limiti) produce l’effetto di spingere la ricerca in avanti come una necessità vitale per superare tali limiti, tramite correzioni alla teoria esistente o attraverso la formulazione di una nuova teoria; diversamente, la teoria che comporta simili singolarità diventa inutile, dannosa e inutilizzabile. In letteratura, al contrario, tendiamo a indulgere in simili “singolarità”, a nutrirle poiché il suo effetto devastante sul lettore diventa oggetto d’adorazione e feticcio (così, le “singolarità” possono trasformarsi, ad esempio, nella letteratura speculativa, secondo la definizione di Jorge Luis Borges).
In questo senso, alla letteratura manca il rigore della scienza. Secondo molti, la cosa più importante per uno scrittore è la sua valigetta di trucchi e stratagemmi; la letteratura, così, è destinata alla finzione. La scienza invece?

MB: Non sono del tutto d’accordo con l’affermazione che alla letteratura manchi il rigore della scienza. In fisica, il problema della singolarità consiste nel fatto che le teorie che usiamo, e il loro correlato matematico, non ci permettono di descrivere determinati stati, i quali sono identificati come singolarità. Per questo cerchiamo di trovare nuove formulazioni matematiche che ci permettano di analizzare questi stati. Quello che Antonio Moresco riesce a compiere, mi sembra, è trovare una formulazione letteraria adeguata per trattare la singolarità di cui ho parlato, in maniera piuttosto cruda, nel passaggio che lei cita.
Risolvere una “singolarità” non significa sempre attraversarla e superarla; per questo, anche se, ne I canti del caos di Moresco – che sfortunatamente non ho letto – il libro scomparisse, lo farebbe in una maniera, o all’interno di una teoria, che il lettore riesce a cogliere. La sparizione del tempo di cui ho parlato sopra potrebbe rappresentare un meccanismo simile in cosmologia. Senza il tempo, non saremmo capaci di attraversare il big bang, eppure la descrizione matematica sarebbe corretta e priva di “singolarità”. Direi, in definitiva, che i migliori esempi di scienza e letteratura arrivano a realizzare delle tipologie di rigore differenti, senza che l’una sia migliore dell’altra. Inoltre, mi viene da aggiungere che anche nella ricerca scientifica, in particolare quando si tratta di big bang, si usano spesso trucchi e stratagemmi, fino a sconfinare nella science-fiction.

AZ: C’è un elemento in particolare– tanto eccitante quanto tremendo – della meccanica quantistica che vorrei sottolineare: il mondo che descrive, le leggi della natura che è riuscita a rinvenire, sono estremamente distanti da ciò che l’uomo arriva a percepire del mondo. In qualche modo, la meccanica quantistica è inumana a un grado che nessun’altra teoria fisica ha mai raggiunto, e allo stesso tempo, è legata più di tutte al punto di vista dell’osservatore, l’occhio umano. Per uno scrittore, questa dualità rappresenta una immensa fonte d’ispirazione, nella misura in cui dischiude tutto un mondo di possibilità – o meglio di probabilità – e moltiplica i mezzi dello scrittore per ribaltare il senso comune.
Questa caratteristica inumana apre allo stesso tempo la questione dell’etica: il ruolo e la moralità di entrambe le discipline. In letteratura, in particolare dopo la rottura operata dal modernismo, uno potrebbe dire che quanto meno “moralizzata” l’opera, tanto meglio; che meno l’autore si chiede quale sia l’utilità della sua opera, tanto più il risultato sarà significativo, lungimirante e originale. Cosa accade invece nella scienza? A parte le evidenti questioni che riguardano la logistica e i finanziamenti della ricerca – questioni che hanno un impatto anche sulla letteratura, per quanto forse a un grado minore, o quantomeno in modo diverso – in che misura la ricerca scientifica è “condannata” all’utilità e alla moralità?

MB: Gran parte delle scoperte, nella scienza così come nella tecnologia, derivano dalla ricerca di base, una ricerca che spesso non ha uno scopo preciso. Per quanto la ricerca di base non porti sempre a risultati concreti, sul lungo termine il suo valore, il valore delle sue conseguenze, è immisurabile. In questo quadro, va anche detto che a volte un determinato lavoro, una direzione di ricerca è utile più ai secondi fini del ricercatore, che cerca con questo di portare avanti la propria carriera, che non alla ricerca in sé. Purtroppo ci sono tanti esempi di questo “uso politico” della ricerca scientifica, soprattutto in alcune aree della scienza moderna che sono tanto affascinanti quanto speculative. Anche qui, però, si può solo sperare che in futuro l’importanza di un lavoro e di una determinata direzione di ricerca possano svincolarsi dai secondi fini dei ricercatori stessi.

AZ: In Prima del big bang lei cita una serie di aneddoti sullo sviluppo della gravità quantistica a loop, e in generale sul ruolo della matematica nella meccanica quantistica: in un’epoca in cui non c’erano evidenze sperimentali – gli strumenti tecnologici non lo permettevano ancora – scienziati come Heisenberg, Schrödinger e Dirac riuscirono a creare, sviluppare e estendere la meccanica quantistica usando unicamente, o principalmente, la matematica – sarebbe a dire attraverso procedimenti altamente speculativi.
Ecco: i numeri (la matematica) e la poesia, un tempo, furono strettamente correlati, penso in particolare alla poesia-filosofia presocratica. In questo senso, ciò che gli scienziati coinvolti nella gravità quantistica a loop fanno non è nient’altro che questo, un’operazione poetica nel suo senso più antico e fondamentale, cioè la trasformazione dell’ignoto in forme simmetriche. E quindi, alla fine, ad unire nel modo più essenziale scienza e letteratura non sarebbero altro che i numeri?

MB: Matematica e poesia sono in effetti due forme di linguaggio altamente strutturato. In entrambe, l’obiettivo è di stabilire regole che ci permettano di scoprire ed esprimere verità fondamentali. Ciò che ci guida, tanto nella matematica quanto nella poesia, nella selezione dei percorsi da intraprendere per stabilire tali regole, è la nozione di bellezza, la quale, in entrambi i casi, risulta difficile da scorgere per i non-iniziati, ed è difficile da definire per chiunque.
Galilei ha detto che il libro della natura è scritto nel linguaggio della matematica. Il suo pensiero era geometrico: le lettere come triangoli, cerchi et cetera, ma potremmo sostituire gli elementi geometrici con quelli numerici in una rappresentazione algebrica. La fisica sperimentale cerca di leggere il libro della natura. La fisica teorica, al suo meglio, fornisce elementi essenziali nella traduzione. C’è da dire che a volte, mossa forse da troppo entusiasmo, ha finito per riscrivere capitoli interi di questo libro.
Non sappiamo ancora se la gravità quantistica a loop sia una traduzione fedele e rigorosa, o invece un’opera di finzione; come che sia, da un punto di vista formale, i suoi numeri rappresentano un tipo di letteratura che si esprime con il linguaggio della matematica.



[1]Una “singolarità”, nelle parole dello stesso Bojowald, si verifica quando le teorie a disposizione degli scienziati non gli permettono di descrivere determinati stati, i quali sono appunto definiti “singolarità”. Nel caso del big bang, secondo la descrizione della relatività generale, lo spazio (il volume) scompare, mentre la densità tende all’infinito; ma la materia non può esistere a densità infinita.

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L’articolo è parte di Ô Metis V, Invenzione
La foto è di Veronica Castiglioni