La testa di Bloom, più leggera o vuota (l’inferno e la gravità), flotta nell’aria schiumosa e ricade quando i Titani sono già in atto e tutto è cambiato, la partita non è più una partita ma un’orgia d’infamie – la testa ricade in ritardo, come sempre il giudizio rispetto alla cosa.
Nella ressa, nell’orgia, alcuni muovono ad agio e sguazzano, altri (Beckett si strappa i capelli come un samurai della pelota-parola, l’ultima; Bukowski ingozzato e saturo; Sartre impallinato; Platini il gobbo) paralizzano, subiscono i colpi e non sanno ferire. Omero, il primo, perde la voce e impreca da dentro come un mimo (canta?). Il ridicolo è il suo limite.
Due, invece, Caravaggio e Cervantes, muovono come distratti, cuori leggeri, per la dimora di urla e fanghi, e scivolando negli ematomi squamosi tastano le pareti, i confini.
La scarpetta di Roi Charles: pane di muffa e fluidi ematici, la puzza d’infero. “Perchè siete qui? A che questo teatro?” Inzuppa e scorreggia in dodici sillabe. “Per allietare i dannati?” Ride di denti neri.
“Mio Re”, Fahridi comincia l’omelia “noi cerchiamo una strada oltre il tuo regno. Gli Olimpi ci hanno ingaggiato per eliminare ogni Titano attraverso lo scontro, il partido.”
La smorfia, il disgusto di Re Charles muove Quijano alla parola. “È che, signore, fratello – maestro – lo spettacolo dei Titani, lo spettacolo moderno, pare averli disgustati. Hanno perso appetito, sono in preda a manie depressive. Zeus l’altituono è stato visto sul lettino di Freud – e tra l’altro, quando il tonante gli ha spiegato che non è una quistione di sesso, quello si è chinato e l’ha succhiato fino a perdere l’aria. Morto strafocato, come Michel Piccoli nell’Edipo Re.”
Ride ora il re. Sorride o geme. “E voi sareste qui a fare la volontà degli dei Olimpi?” Il riso diviene vomito.
“Mai!” Quijano salta sulla sedia di vermi e pastiglie. Fahridi gli viene incontro. “Siamo qui per ingannarli. Noi vogliamo che dallo scontro si apra un’altra strada, una che vada oltre l’infero.”
“Non c’è altra strada.” Il re fa per andare via sui piedi molli di funghi. Agathe, giovanissima, gli lustra i polpacci.
Quijano ritorna in sè: “Noi sappiamo, mio re. C’è una via oltre il tuo regno, una via che il conflitto stesso può aprire (la morte non è l’ultima cosa, nè la prima) – noi lo sappiamo…perchè noi…” si contrae e pare soffrire la puzza del posto. “…Perchè noi ti abbiamo superato, maestro.”
Si volta, le Roi, negli occhi la furia. Superato. Io sono l’ultimo. Dalla melma estrae Quijano per i piedi, lo gira, lo appende. “Insolente ignobile frutto, tu sarai il mio pasto quotidiano.”
Fahridi con le mani intercede e le muse, le troie e le altre lo succhiano per distrarlo, mentre il Re tortura Quijano con le unghie squamate.
Poi un uomo entra. Ignudo, membro possente, una pelle di fiera sul tronco. Eracle. Come fosse chez lui, appoggia, palpa. Ad un palmo dal re, si spiega: “Signore del nuovo regno di sotto” si sgrulla e titinna i capezzoli grigio cenere d’Agathe “vengo a verificare che il patto sia tenuto. Che questi due” indica col medio Fahridi succhiato e Quijano impiccato “tengano la parola. Questi ammorbati Titani, questi noiosi morti viventi, questi malati, devono tutti finire. Lo spettacolo deve finire.”
Il Re, arrogante, morboso, lascia Quijano appeso (la gravità e la caduta) e si fa da Eracle. Con le mani nere ordina alle orde di femmine di ungerlo. “Impudente, tu lo conosci l’amore, la sifilide?” Un branco di mani fangose avvinghiano il corpo di quello. “Vuoi sapere il finale della cosa? Attendi con noi!” E alle donne: “Ora agghindatelo.” E quelle s’operano. Coi veli, coi chiodi, coi legni. Ora Eracle, un panno sul membro possente, una corona di spine, una croce, è INRI. “Siamo tutti unti qua sotto, nel mio regno”, mentre Eracle sanguina possanza e le vergini troie sotto si danno di lingua. “Attendi e sarai ingannato.”
Quijano è a terra, Fahridi è venuto due volte (coito e nostalgia). Le Roi torna da loro: “Voi!” Si lecca le dita. “Questo in cui vi trovate è l’ultimo luogo, non c’è altra via che valga la pena di essere percorsa. Ma se voi dite di avermi superato vi sfido a trovarla. E se non riuscite, resterete a marcire insieme alle Avanguardie, spettacolo di spettacolo.” Quijano e Fharidi si guardano ed è conato unisono.
Poi Qujano, più sali nello scroto di Fharidi (meno triste) si azzarda: “Come, mon Roi, maître?”
E quegli a lui: “Non c’è come, solo quando. Come è solo un gioco del caso. Una distrazione potrebbe aprirvi la strada.” Torna sul trono e Agathe lo segue accantucciata. “Ora attendete e sperate. E soffrite.” Coi bulbi nerastri si volge ad Eracle che spande liquidi rossi e biancastri. Il pubblico esulta; qualcuno, le mani libere, si masturba. “Questo è il mio regno.”
Dietro la tavola imbandita con le interiora di Bukowsky, Cervantes e Caravaggio camminano fianco a fianco. Ogni tanto il manchego sghignazza, fanciullescamente, o alterna a queste risatine un cupo rimpianto. “La luce non viene fuori da nessun punto. Signore, aiutami!” dice, mentre Caravaggio, finora muto, tocca, saggia il muro, il verminaio. Degusta. “Se non c’è luce reale, dice alla fine, la faremo venire fuori noi, amico.” “Tu credi? Nella luce, dico, nella speranza che prima o poi…” la voce si ferma nella gola, non sa più parlare. Respira, come un vecchio che sogna la gioventù, Cervantes l’ingegnoso.
Poi si volta indietro. Dal punto dove si trova vede la schiena del Re, i liquami del Sarno che scorrono dai suoi capelli, Agathe e Francesca e le donne di Lesbo che lo accarezzano. Vede Fahridi e Quijano, i loro sguardi si incrociano. Cervantes ride stupidamente e fa loro cenno di avvicinarsi. Le Roi s’accorge dell’invito, sorride a denti fumosi e stretti. “Andate, dice. Anzi, va solo tu Quijano, va’, stronzo insolente. Tu, Fahridi, mi sembri più proprio per parlare con un Re. N’est-ce pas?”. Silenzio.
“Chi governa un regno come questo, non conosce domande – soltanto risposte.” Con tali parole, lo congeda il Re. Quijano si alza. Soffre: una mano sullo stomaco, l’altra sull’occhio destro, ferite lungo tutta la schiena. La disperazione dell’ispanico, ora, non trova rimedio.
Le Roi si scuote. Beatrice da sotto la veste, che cade unta fino ai piedi, tira fuori la testa: un fiotto biancastro le cola dal labbro inferiore. “Questo è il fondo, non c’è un altro. Vero, amore mio?” Quasi in sussurro alla donna, incurante dell’arabo. “Questi sciocchi, o dolcezza di fiele, pensano ancora che si possa fuggire da qui. Pensano come quello là (indica Dante), che voleva col suo gesto risollevare intera l’umanità. Lui, poeta di tombe, come ti aveva ridotto: allo spirito, all’ombra… io, invece, ti amo con tutto me stesso. E tu?” alza lo sguardo scavato verso Fahridi “Resta qui con me, accetta la mia tentazione!”.
“A che scopo? Se il come è mero caso, che ne sai tu, maitre, del quando? Forse che il tempo si ferma e ristagna qui, nel verminaio dei tuoi amplessi?”
“Chi fa domande, conosce solo domande, qui!” Dalla croce Eracle INRI, spompinato, s’introduce nel discorso. “La croce, arabo, è irrisolvibile. Più non chiedere!”
“Mio re – risponde Fahridi, che non cede mai un passo e se ne fotte di Eracle – noi sappiamo che bisogna scavare, per trovare il fondo incompreso . Gli Olimpi, tu li conosci, ci hanno mandato qui. La nostra presenza è dunque solo frutto del caso? Del come? No, mio re, noi sappiamo che è solo il quando, soltanto esso e la tua mano lercia possono benedirci.”
“Gli olimpi!” Esclama Charles le Roi, e nella voce, senza traccia d’orgasmo, si percepisce l’odio, il male. Silenzio. Con un cenno del capo allontana le sue schiave, tranne Agathe, sollievo ai suoi malanni. Poi riprende a parlare: “La solitudine è il mio quando, la disperazione il come. E non vedo altra via, Fahridi…” Si interrompe ancora una volta, alza lo sguardo verso Eracle INRI mezzo addormentato. Si solleva dal suo seggio, avvicinandosi alla croce. “Mangia quest’oppio, gli dice, ti aiuterà a dormire e a lenire tutto questo dispiacere!”
Fahridi osserva la scena, ride e soffre. Le Roi torna a sedersi. “Così , dice, si può parlare in tranquillità: senza donne e senza martiri.” Fa una pausa, poi: “Ascolta, arabo, quello che sosteneva poco fa Eracle è vero: la croce non si risolve, ma può essere abbattuta. Scavare tu dici, io affermo che è finita la terra oppure è marcita e non c’è via d’uscita. Questo è l’ultimo luogo.” Altra pausa, poi di nuovo: “Gli olimpi vogliono disperdere la memoria di questi Titani, depressi dal loro spettacolo tumefatto. Per questo, vogliono mettere fine ad ogni spettacolo, ogni inganno: divertirsi quantomeno ora, un’ultima volta, nel vederli finire . Perciò li hanno mandati da me, perché li costringa a dimenticare la volontà. Io non temo lo spettacolo, nè il tumefatto. Perchè io sono l’ultimo luogo.”
Fahridi, più sofferente ora che la ferita sanguina, la ferita dell’inganno – le parole gli restano in gola, le domande e le risposte.
“Non chiedermi altro, figlio, io ho cancellato la memoria, per costruirmi questo inferno. Nulla di ciò che so potrebbe esserti utile. Solo un accidente…” la voce si interrompe bruscamente nella gola. Il re tossisce, sputa materia grigia, infine ride come un demente. “La croce… bastardo!” Urla verso Eracle, scagliandogli contro il contenuto della sputacchiera. “Ha fatto bene Pietro a tradirti, e io anche – e ora di nuovo ti tradirò attraverso questo figlio!”. Tutto nella mente del Re si confonde, diviene sinestesia e Eracle è Cristo (e Isacco), profumato con pinzimonio di sputo e sangue. “Il suo corpo”, conclude con una risata diabolica ed impugnando un grosso coltello, “offerto in sacrificio per te, Fahridi, figlio mio!”
Le Roi si leva ancora una volta, Agathe lo sorregge. Muovono qualche passo verso la croce, poi la giovane si gira ammiccante a Fahridi. (La sifilide attecchisce padre e figlio.) I due fanno ancora un passo, nulla distrae Fahridi dall’andare della ragazza, si sente impazzire. È la sifilide, dice tra sé, come felice.
La pelota, però, continua vorticosamente a essere calciata. Ora è il groviglio Sacher-Masoch/D’annunzio a contendersela, ma quella, la parola in forma di palla, non si ferma. Ride sboccato Nietzsche, Cavallo Pazzo, nel vedere i tentativi pro forma dei due amanti. “Ah! voi due, non siete ponti, non siete e basta!”. “Ma che importa essere, quando l’amore si manifesta nel suo trionfo!” rispondono i due in coro.
Ognuno è perso nel proprio delirio. Il luogo puzza, questo è certo, come la verità. E Pound oramai stanco, accasciato, non ce la fa più e a nulla valgono le parole di conforto di T. S. Eliot. Solo Diego (l’ultimo intuitivo) ancora rincorre la palla, solo lui la domina, per estraneità alla parola stessa e grida, come se fosse l’unica cosa che sapesse: “La pelota no se mancha”. E quella non si schizza della melma nel verminaio, sempre intonsa, bianca sul pibe de oro sbatte e partecipa al palleggio.
La partita è in stallo. Nessuno può decidersi. Dante stesso, disperato, cerca intorno la lonza, il declivio. “Io ci sono stato una volta, qui sotto, in vacanza.” Dice tra sé, passeggiando lungo i bordi dell’ampia sala, al lato opposto del seggio del re. “Era il 1302. C’era una piaggia solitaria, non certo tutto questo affollamento. Sarà questa la causa per cui non vedo più la mia lonza, si sarà spaventata alla fine. Su, bella lonzetta, vieni, vieni qua! Dove ti sei nascosta?”
In un angolo Platini, le génie au Loi, ha paura, trema come un fuscello e sulle gambe, come una pietà michelangiolesca, tiene il corpo esanime di Sartre. “La nausea, diceva poco prima di scendere qua sotto, io sento, io voglio pur non volendola”. Ed ora che la nausea l’ha trovata, ci è morto e nessuno, tranne un franco-piemontese, gli è vicino. Una bella fine ingloriosa!
Quijano, dal canto suo, a passi tardi e lenti, il petto gonfio di immensa angoscia, s’allontana dalla mensa. Sente la voce dell’amico, e gli pare che questa si faccia sempre più flebile, come se fosse un ricordo. Questo pensiero lo dilania ancora di più, si volta: le Roi sta dando qualcosa da mangiare a Eracle INRI, gli occhi di Fahridi, però, stanno seguendo i suoi passi. La fiducia, pare che dicano, non è merce di mercato. Quijano sorride, ma l’angoscia resta lì, piantonata nelle scarpe. Eppure va, l’ispanico. “Una distrazione, dice a sé stesso, certo, anche io ne ho bisogno, maestro. E questi due cazzoni possono offrirmela.”
Posa lo sguardo su Cervantes e l’altro Michelangelo: il primo ancora lo sta salutando, come un demente o un ingenuo; l’altro, invece, è sempre di spalle, che cerca una luce, una via di fuga. “Gli strozzini, dice d’un tratto al manchego, possono sempre venire a cacciarmi fin qui sotto. Se la Sicilia non m’ha nascosto, non lo farà di certo questo verminaio. Bisogna risalire, capisci? O ridiscendere, uscire!” La luce sta sopra e da qui (la voce del pittore stride) non si vede più il cielo!” Infine si volta, s’accorge che in fondo parlava da solo. Non si cura però di Cervantes, il suo sguardo si posa immediatamente su Quijano. “E tu chi sei?” gli chiede, con voce tremolante. “È un cavaliere, non lo vedi? Ah certo, la luce, la luce che cerchiamo… ad avercela, lo vedremmo in tutta la sua imponenza.” Risponde senza indugio Cervantes, tutto serio. Quijano ascolta, ma non capisce. Eppure sorride. “Che dici! Idiota!” fa Caravaggio, con un filo di voce. “I soldi, dice rivolgendosi ancora a Quijano, i soldi ce li ha questo qui! Mi ha imbrogliato, portandomi in mezzo a questi pazzi, e mi tiene come schiavo. Mi cavalca, questo matto, quasi fossi un ronzino.” Qui si frena, tira il fiato. Poi riprende, piangente, singhiozzante: “Non è colpa mia, ma il vino, le donne… il Signore non può… è un’ingiustizia!”
E Quijano giuoca il giuoco – memore o immemore del caso. “E cavalca, allora. La promessa è debito e di debiti stai pieno.” Con l’occhio fermo, grottesco, si fa all’altro di fianco. “Cavalcalo, cavaliere!” E Cervantes, l’ingegno si apre in un sorriso: “Io? Sei sicuro, signore? Proprio io? È una vita che aspetto.”
“Cavalcalo, e il debito sarà estinto.”
E Caravaggio si mette prono, sulle mani e i ginocchi. E Cervantes impazza. “Adelante!” Col tacco picchietta lo sterno dell’altro Michelangelo, che inzuppa le mani nel fango. Scivola e va, col gomito e con la tibia. “Adelante!” E grida, si erge sulla schiena di quello, puntando verso Eracle INRI, cui le donne hanno appena scuoiato il membro.
“Voglio farne un guanto, Fharidi.” Rigira e tasta il cuio del membro che fu. L’immane lunghezza: “un accappatoio, un sudario – che dite, Francesca, Beatrice, Agathe? Dentro di quello, sotto di quello come un tetto, compieremo i nostri riti. À l’abri du monde.” Lo sguardo percorre l’intero regno, ed è nero come quello. “Questo magnifico pene d’INRI sarà il nostro tempio segreto. Fharidi! Allargalo in tutta la sua estensione, e quanto spazio coprirai con questo cazzo d’eroe ultima stagione, figlio mio, tanto sarà tuo” E quello, l’arabico non può sottrarsi al richiamo, così pare. “Resta con me, con noi. Insieme celebreremo orgia quae frustra videre profani capiunt!” È la voce di una sirena nera, la tentazione, la coltre. “Fharidi!” E la voce è un basso, un canto; trafigge gli organi. Tutto il regno prende a cantare, o è una distorsione delle sue orecchie arabiche. Fharidi nella trance, di nuovo. È il suo destino. “Lascia ai pidocchi rovistare la melma. Abbandonati con noi: è la danza del come, una cosa eterna. Non c’è altro luogo se non questo, l’ultimo luogo. Danza con noi!”
“Quijano! Alonso!” è un grido, una schiuma bavosa che sporge dalle sue labbra arabiche come l’ultimo pegno. “Bevi con me dall’otre, lo scroto, di INRI. – Incalza il padre – Saziati del succo dell’uomo. Gli altri non sono l’inferno. Gli altri non contano, sono contati. Numeri, sigle, proposte e inviti. L’inferno sono io che te l’ho insegnato, Fharidi, io che sono tuo padre, tuo fratello – ton semblable. N’oublie pas ta patrie!” Volge il collo verso Agathe, la lingua du Roi si attizza sulla bocca della giovane. E le ginocchia dell’arabico si sciolgono. È carponi, sputa. “Mio re, acqua!” sono le ultime parole. Vomita e viene meno nel verminaio dove tutto si confonde.
“Adelante!” Cervantes ingroppa il pittore e impazza, mulina coi bracci e le mani a un passo dalla croce. INRI è scarnificato per intero. I budelli e le nari, sfintere e unghie già ornano il trono del re.
E il manchego picchia, è fuori di sè. Gioca. E il pittore si perde tra le botte, scivola, rovina. Sulla croce. Quijano li segue da presso, anch’egli fuori, fuori di sè. Presente o vede, batte.
Crolla la croce, rovina INRI scuoiato. Ed improvviso un rumore. Una scorreggia d’aria da sotto. Il regno del Roi si ferma, il Sarno si ferma. I masturbatori del terzo anello interrompono l’attesa del coito infinito.
“Aria!”
Quijano prende a saltare, mentre i Titani in ressa accorrono verso il buco. Quijano si erge a cercare con gli occhi gli occhi del fratello arabico. Fharidi il mistico ha un sussulto. Sputa sangue, riapre le orbite.
“Acqua!”
Ognuno fuori di sè, è la calca. I Titani si lanciano dentro. Fharidi in trance accorre sbattendo. Le Roi pure si ferma. È un fatalista, si gode lo spettacolo. “Figlio, Fharidi! Mi rinneghi quoque tu?” Beatrice e Francesca danzano sulle natiche, mentre Agathe – Â, Agathe, dolce veleno… “Male, male infinito ti venga. Fammi godere!”
“Aria!” I Titani si lanciano a precipizio nel buco ma non c’è modo di aprirlo, sfondarlo. Ed è la disperazione più nera, la disperazione di quello che, fuori di sè, è costretto, forzato – stuprato – a tornare dentro, a restarci. T. S. Eliot si accascia al suolo, in una pozza di fluidi – fear death by water. E Dante, spastico come un poeta tra le tombe si accascia, si destina al ricordo della lonza che fu. D’Annunzio e Sacher-Masoch si danno all’amore violento per dimenticare. Caravaggio si dilegua tra i fumi, si fa strada nel circolo dei creditori. Schiller si mette in fila cogli altri poeti morti di fama. Pasolini, o el Paso, rinvenuto morto sborrato sul prato nero della Casilina infernale – ogni inferno ha la sua Casilina, il suo sogno di rivoluzione incompreso. Gli altri impazzano, dilaniandosi.
Poi una voce, da sotto.
“Superare anche il terrore, e le vergogna, del deserto. E dell’invano.”
Fharidi soprassalta: “Io lo conosco, riconosco.” Quijano lo abbraccia ridendo demente. “È il gobbo!” Si fa al buco minuscolo da cui l’aria. “Gobbo! Poeta! Facci strada!”
E il gobbo: “Dimmi, Ispanico: cosa dev’essere un uomo per stagliarsi nell’insignificante spettacolo senza scopo?”
Cavallo Pazzo nitrisce eccitato, si fa all’orecchio di Eraclito e bisbiglia nella sua lingua. Eraclito, l’Uno, traduce a Quijano. E l’Ispanico, voce e speranza di ognuno, dice: “Noi ce ne fottiamo dell’uomo!”
Ed il foro si apre, si allarga. Giacomo il gobbo li accoglie sbrigativo mentre quelli esultano, ballando inneggiano all’inganno e gridano “Metis! Ô Metis!”, scivolando nel tunnel. “Fate presto. In questo tunnel la guerra si è fatta parola e bisogna combattere ad ogni istante. Qui dentro respirare è pensare e parlare è mangiare.”
Quijano e Fharidi il rinvenuto s’abbracciano di nuovo, mentre Omero si liscia le tempie e le tibie. È pronto.
Mr. McMetis (fuori campo): “Lo riconosco, infine. Lì sotto, io c’ero stato, il vecchio lo sapeva. A me, era indifferente – l’infero o il mare valeva come la stessa moneta. Ma lui, l’aedo, diceva, io creo il canto. E ora – ancora – è pronto. Anch’io sono pronto. Che la cosa, il canto, abbia ora davvero inizio”.
***
E per chi l’immane lunghezza distrae, di nuovo: il primo, il secondo, il terzo, il quarto, il quinto, il sesto.]
Entro da qui.
Dal Califato di Cordoba año del Egira 330, giorno o si.
Al sobreintendiente del Califfo, Alfharidi ibn Micatant y a su hermano Don Alonso Quijano, en aquel lugar de la Mancha, ecc, ecc.
vi sotto-pongo o sovrappongo
e comunque depongo, el guano Señor, o il famigerato caca Artaud” ARThurimbAUD.
c’è bisogno comunque di una colonna,
una brigata, sobreintendiente.
Il mio nostos in un mare di algos. E vi dico in verità (giudaizzante) è il più importante di tutti i nostoi.
Ora, ecc, ecc.
L’enigma
Per
Pudore
Che mi tocca tacere l’autore, un certo Carletto a dire il vero (mi capita di rado). Come diceva F.W.N un poco di sana cattiveria, in fondo la trasvalutazione di tutti i valori inizia proprio dal beato quelli che hanno visto e non creduto. L’alba si alzerà quando sarà il crepuscolo e quando porca puttempo il bianco sarà finalmente diventato nero.
Mentre ci allontanavamo dalla tabaccheria, il mio amico fece una diligente selezione dei suoi spiccioli; nella tasca sinistra del panciotto introdusse alcune monetine d’oro; nella destra, qualche monetina d’argento; nella tasca sinistra dei calzoni, una abbondante manciata di soldoni, e nella destra, infine, una moneta d’argento da due franchi che aveva particolarmente esaminata.
«Singolare e minuziosa divisione!», osservai fra me.
Incontrammo un mendicante, che tese verso di noi il berretto, tremando. – Nulla conosco di più inquietante della muta eloquenza di quegli occhi supplichevoli, che contengono a un tempo, per l’uomo sensibile che sa leggervi, tanta umiltà e tanti rimproveri. Egli vi trova qualcosa che s’avvicina a quella profondità di complicato sentimento ch’è negli occhi lagrimanti dei cani frustati.
L’elemosina del mio amico fu assai più considerevole della mia, ed io gli dissi: «Avete ragione; dopo il piacere di rimaner sorpresi, non ve n’è alcuno maggiore di quello di produrre una sorpresa». – «Era la moneta falsa», egli mi rispose tranquillamente, come per giustificarsi della sua prodigalità.
Ma nel mio miserabile cervello, sempre intento a cercare l’assurdo (di quale estenuante facoltà mi ha fatto dono la natura!) entrò subitamente l’idea che un tal modo d’agire da parte del mio amico non fosse scusabile se non col desiderio di creare un avvenimento nella vita di quel povero diavolo, e fors’anche di sapere quali conseguenze diverse, funeste o no, possa produrre una moneta falsa in mano a un mendicante. Non poteva essa moltiplicarsi in monete buone? Non poteva anche condurlo in prigione? Un oste, un fornaio, per esempio, lo avrebbe forse fatto arrestare come falsario o come spacciatore di valuta falsa. O forse quella moneta sarebbe stata, per un povero piccolo speculatore, il germe di una ricchezza di pochi giorni. E così la mia fantasia galoppava, prestando le ali alla mente del mio amico e traendo tutte le deduzioni possibili da tutte le ipotesi possibili.
Ma l’amico troncò bruscamente la mia fantasticheria, riprendendo la mie stesse parole: «Sì, avete ragione; non c’è piacere più dolce di quello di cagionare sorpresa a un uomo donandogli più di quanto non speri».
Lo guardai nel bianco degli occhi e fui spaventato al vedere che quegli occhi brillavano di un incontestabile candore. Vidi allora chiaramente che aveva voluto fare, ad un tempo, la carità e un buon affare; guadagnarsi quaranta soldi e il cuore di Dio; portar via il paradiso a buon mercato; e infine pigliarsi senza spesa una patente d’uomo caritatevole. Gli avrei quasi perdonato il desiderio del delittuoso piacere di cui poco prima lo avevo supposto capace; mi sarebbe sembrato strano e singolare che si divertisse a compromettere i poveri; ma non gli perdonerò mai la meschinità del suo calcolo. Non si è mai scusabili d’esser malvagi, ma c’è un po’ di merito nel sapere che si è tali; e il più irreparabile dei vizi è quello di commettere il male per stupidità.
Bajo las vencedoras bandera…ecc, ecc,
Don Juan Pedro Lozano Del Campo Bernal Pineda.
C’è sempre bisogno di una brigata o colonna – un pilar – estimado Don Juan Pedro Lozano Del Campo Bernal Pineda.
Per pudore, Le rispondo con un aforisma tratto dall’anonimo “PRELUDIO SATIRESCO DI UNA FILOSOFIA INAUDITA”:
“Il vivente ha ragione del morto, per ovvie ragioni: principio di una cultura semibarbarica. Valga lo stesso all’inverso.” *
*Il canto drammatico del satiro festante è un canto ebro, cavernoso; eppure una volta sobria mente l’ho sentito affermare: “in una prospettiva filologica, verità è assimilabile a fondamento; in una prospettiva politica essa è uno strumento malleabile, assimilabile talvolta al fondamento; in una prospettiva filosofica, verità è un anacronismo, un usteron proteron.” Destino arduo, quello del satiro, manco fosse un oracolo.