Alla memoria di Giovanna De Angelis
Il presente testo fu ritrovato tra le carte di padre Nicola Lucignano, dopo la sua tragica morte, avvenuta a Pozzuoli durante l’epidemia di colera che aveva colpito la cittadina flegrea nel 1837, dall’allora vescovo Marolda: si tratta della traduzione in napoletano antico del primo capitolo di Genesi fino al versetto 27; non sappiamo se il canonico avesse intenzione di continuare o meno il suo lavoro, né sono state ritrovate carte in proposito, sta di fatto che esso si è interrotto alla fine della creazione. Per quasi un secolo, però, le note sono rimaste fuori dal testo: il loro contenuto infatti non si limitava a essere sostegno alla traduzione, ma sviluppava una teologia insolita per il tempo e, soprattutto, davvero singolare per un prete del Regno di Napoli. Il vescovo ritenne opportuno occultarle per non suscitare ulteriori scandali in una Chiesa borbonica già compromessa pesantemente. Nelle note si avverte un malessere che, secondo la tesi di Jaroslav Brmic, teologo boemo convertitosi a ottantanove anni all’ebraismo, deriva dai colloqui con Yankev Orten, un burattinaio praghese arrivato a Pozzuoli nell’estate del 1837 alla ricerca del Yabashah, il misterioso vampiro che dal corpo degli uomini, secondo una leggenda ebraica, succhiava acqua. Per Brmic il nostro sarebbe stato iniziato addirittura alla sapienza della Qabbala da Orten, ma questa è una tesi ancora tutta da dimostrare. Sembra addirittura che il manoscritto sia finito per un certo tempo nelle mani di Ferdinando II di Borbone e che sia stato da lui vergato, su di una copia mai ritrovata, durante i moti del 1848, quasi a voler scongiurare il malocchio che secondo lui il manoscritto avrebbe emanato.
Qui riportiamo la fedele riproduzione dell’autografo di Nicola Lucignano conservato nell’Archivio Diocesano di Pozzuoli: il titolo è stato scelto da me, credendo di interpretare correttamente quanto il Lucignano, di nascosto, intendeva esprimere parlando della creazione come di una pantosca.
Pozzuoli, 19 maggio del 1943
durante l’occupazione nazista.
Alfredo Bioy Guzman
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1. Accumenzaglia Dio criaje lu spartamiento[1] e la erezza[2]. 2. E la erezza era sulagna e sconceca e lu scurore ’ngopp’ ’a faccia dell’acqua futa e lu sciuscio de Dio vulava sopia-sopia ’ncoppa a la faccia dell’acqua lejestra[3]. 3. Dio dicette: «Sia la lummera», e la lummera fuie. 4. Dio vedette ca la lummera era bbona e Dio scucchiaje tra la lummera e lu scurore. 4. Dio vedette ca la lummera era bbona e Dio scucchiaje tra la lummera e lu scurore. 5. Dio chiammaje a la lummera iuorno e chiammaje a lu scurore notta e fuie sera e fuie matina; iuorno uno. 6. Dio dicette: «Sia la lammia[4] celeste mmiez’ all’acqua»; e fuie scucchiato tra acqua e acqua. 7. Dio facette la lammia celeste e aspartette l’acqua che steve abbascio da lammia celeste da ll’acqua ca steve ’ncoppa da lammia celeste; e accussí abbenette. 8. E Dio chiammaje la lammia celeste spartamiento, e fuie sera e fuie matina; iuorno ddoje. 9. Dio dicette: «Aunimme ll’acqua ’a sott’ ’o spartamiento mmerzo ’n’uneco pizzo» e fiuraje lu sicco; e accussí fuie. 10. E Dio chiammaje allu sicco erezza e all’acqua arrecogliuta ’a chiammaje mare, e Dio vedette ca era bbona. 11. Dio dicette: «Adda squiglia’[5] la erezza evera e resciola, semmenando semmenta de àrvaro de sciosciole[6], faciaranno sciosciole p’ ’a ienimma lloro, ca la semmenta tene astipata dinto, ’ncoppa la erezza»; e accussí fuie. 12. La erezza sguigliaje evera e resciola da semmenta semmenata p’ ’a ienimma lloro, e facette àrvari da sciosciole ca semmenta dinto p’ ’a ienimma lloro; e Dio vedette ca era bbona. 13. E fuie sera e fuie matina; iuorno tre. 14. Dio dicette: «Sarriano li stelle e la lummera de lu spartamiento pe’ aspartere tra lu iorno e tra la notta, accussí faciarranno da mierco pe’ stascione, pe’ iuorne e pe’ ll’anni. 15. E accussí fuieno li stelle dinta a la lummera de lu spartamiento a sbrennere ’ncopp la erezza; e accussí fuie. 16. Dio facette ddoje stelle ’rosse: la stella majateca[7] pe’ mastria’ lu iuorno, e la stella peccerella pe’ mastria’ la notta e li stelletelle stravinate[8]. 17. Dio l’appuiaie dinto la lummera de lu spartamiento pe’ sbrennere ’ncoppa la erezza. 18. Reieranno lu iuorno e la notta e scucchiarranne tra la luce e lu vvruoco; e Dio vedette ca era bbuono. 19. E fuie sera e fuie matina; iuorno quatto. 20. Dio dicette: «Vollino[9] le acque de le anime aneme sciusciate[10], e scellia’[11] hanno l’aucielli ’ncoppa la erezza, annanze la lummera. 21. Dio criaje li pesci gruossi e facette ogni nefesce e riettili ca sguigliano dint’all’acqua, sicondo la ienimma lloro e ogni auciello scellato secondo la ienimma lloro. E Dio vedette ca era bbuono. 22. Dio ’e ’ncarmaje pe’ ddicere: «Sciurieno e sguiglieno e jate a ienchere ll’acqua de’ mari e l’auciello scellato volleno ’ncoppa la erezza». 23. E fuie sera e fuie matina; iuorno cinco. 24. Dio dicette: «La erezza faccia l’aneme sciusciate sicondo la ienimma lloro: vestiamme, strusciante[12] e ienimma; e vestie vesdine de erezza», e accussí fuie. 25. Dio facette li vvestie vesdine de la erezza sicondo la ienimma lloro e lu vestiamme, e ogni strusciante de pantuosco[13] e Dio vedette ca era cosa bbona. 26. Dio dicette: «Facimme ll’omme[14] comme nella fiura nostra e comme la ’nfanzia nostra, mastriarra’ ’ncopp’ a li pisci d’ ’o mare e l’aucielli de lu spartamiento e lu vestiamme e ’ncoppa a tutta la erezza e ncoppa a li vvesti vesdine e li strusciante de la erezza. 27. Dio criaje l’omme comme fiura soia; e Dio criaje comme la ’nfanzia soia lu masculo e la femmena.
[dall’antologia Disertori. Sud: racconti della frontiera, a cura di Giovanna De Angelis, Torino, Einaudi, 2000, pp. 203-08]
[1] Significa sia «confine» che «tagliato», dall’originario caedere, «tagliare». Ho preferito tradurre così shammayim, «cieli», per mantenere il significato della separazione, della divisione originaria, dolorosa come una ferita, tra l’uomo e Dio; è la linea di confine che disturba l’uomo. Il cielo è ciò che resta lontano, distante, dove le acque, secondo le cosmogonie antiche, sono raccolte nella trasparenza e pesano sul capo dell’uomo facendogli sentire tutta la precarietà dell’esistenza e, allo stesso tempo, il peso del cosmo. Non è un caso che l’origine etimologica di cielo sia «io taglio»: tutt’altro. Indica come sin dall’Inizio il creato abbia subito la lacerazione che ha turbato il mondo: la ferita originaria, quella che si sottrae alla logica platonica dei numeri, è scritta nel cielo e tracciata nel cuore dell’uomo come una lenta tortura. La separazione è l’ossessione dei miti antichi: Eva si separa, nascendo, da Adamo; l’androgino è separato dagli dei gelosi; Tiamat, divinità babilonese, tagliata in due per far posto al cielo e alla terra; e, se vogliamo, lo stesso Narciso, separato da se stesso, possedendosi al punto da morirne. L’apparenza del cielo diventa una terribile condizione, quella che fa sentire all’uomo il senso estremo della morte. Quando Gesù morì il velo del Tempio si squarciò [Mc 13] e il cielo si fece tenebroso, a indicare la disarmonia ontologica che regna nell’uomo e nel cosmo, quella che costringe l’uomo a errare in cerca di qualcosa di diverso dalla creazione, ma lo condanna poi alla terribile fatica e allo scacco estremo, poiché dovunque egli vada troverà il mondo, e dove c’è il mondo regna la ferita. La separazione tra coste e montagne, tra la dolcezza delle acque e la bellezza degli alberi, rivela in realtà una gigantesca cesura; gli uomini e il creato, allontanatisi in preda a febbri telluriche, non hanno smesso di cercarsi andando in direzioni opposte.
[2] Mi sembra che la napoletanizzazione di ‘erez, «terra», mantenga un sapore più arcaico.
[3] È l’acqua di superficie, mutevole come Tiamat, la capricciosa divinità delle acque della cosmogonia babilonese, quella che accoglie dentro di sé il cielo da cui riceve il colore, soggetto ai suoi umori. L’acqua di Pozzuoli, il suo mare incerto, ancora conserva l’instabilità dell’Inizio, muovendosi tra cielo e terra senza mai trovare un luogo dove poter riposare, come il Yabashah che si asciuga sempre più procedendo verso Dio [quest’ultimo rigo è un’aggiunta in margine al foglio datata 23 giugno 1837].
[4] La parola rende bene il senso della struttura precaria che regge il mondo e dunque di un equilibrio fragile, pronto a crollare in qualsiasi momento; il mondo non riesce a sostenere se stesso se non con gran fatica, cercando strenuamente nell’ordine cosmico la ragione sufficiente per non morire. È, in fondo, quanto gli stessi rabbini antichi, a dire di Orten, commentavano.
[5] L’imperativo ebraico è tadeshe’, «produca»; indica in questo caso un’attività germinativa intensa, un germogliare improvviso e abbondante. Ci troviamo di fronte a un’attività che freme; è il germogliare senza posa, incessante, quasi Dio fosse in preda a una inebriante fantasia creativa che più tardi [Gen 6, 5-7] rivelerà la precaria stabilità della creazione e un costante senso della fine che l’uomo e l’animale vivono quotidianamente di fronte a un creato che incombe, come un edificio traballante, su di loro. Quella di Dio è un’esplosione incontrollata di colori e di energia che cerca disperatamente una forma che la fermi, che le permetta di placarsi in una sorta di esercizio della fine; per questo la morte diventa il lato d’ombra della pazzia che colpì Dio e lo portò a creare il mondo secondo la bellezza e la finitudine.
[6] Preferisco il nome generico della frutta secca per indicare il frutto prodotto dalla parte asciutta della creazione.
[7] Genesi adopera gadol, «grande», ma ho un po’ arbitrariamente tradotto con majateco per indicare il sole: è infatti il sole espressione di forza, di fioritura, di abbondanza legata per lo più al mese di maggio, quello nel quale i campi producono in maniera clamorosa.
[8] L’aggettivo l’ho utilizzato per indicare kokabim, le stelle sparse sull’intero strato del cielo.
[9] È in relazione alla nota 5, visto che il verbo «bollire» è origine del verbo «germogliare».
[10] Nel testo nefesh hayyah; nefesh è in origine la gola e dunque, per traslato, l’alito, il soffio, cioè l’anima, mentre hayyah è il vivere in senso fisico. Meglio sarebbe tradurre «anime viventi» ma ho preferito aneme sciusciate, perché in relazione profonda con nefesh e con Gen 2,7.
[11] Secondo Gaston Cordova, il nano eretico che il vescovo ha confinato verso Quarto, scellia’ significa «svolazzare pesantemente; trasl.: reggersi alla meglio». Gli uccelli portano nel volo, come il resto del creato, la pesantezza della creazione e il timore che tutto crolli improvvisamente.
[12] In ebraico remes, «rettili», o più precisamente «ciò che striscia»; lat.: reptilis.
[13] Il pantuosco è la zolla di terra friabile, quella che si rompe al minimo contatto e che allo stesso tempo copre, nasconde, crolla. L’ho adoperata perché esprime il senso incerto della creazione, pronta a sbriciolarsi al minimo urto. Il senso di trepidazione del mondo è la costante del suo girare, e ogni giro pare che ne usuri la natura, rendendolo instabile, pronto a crollare al primo avvenimento. Il mondo come pantoscola è l’incertezza dell’esistere su cui pesa il mistero e la solitudine, il vuoto e il buio; la friabilità del creato è nel cielo e sotto i nostri piedi, nemmeno la Santissima Eucaristia sarebbe capace di tenere insieme la sua sostanza se essa decidesse di sbriciolarsi. L’uomo è stato creato dal Signore Iddio per essere ricoperto dalla terra.
[14] Dio ha trasumanato il serpente di Gen 1,25! A passi lenti, dopo lunga esitazione. Ricomparirà, svestendosi del corpo immondo, nella Gnosi Finale. È l’immagine di Dio. Nemmeno l’acqua del battesimo potrà ridarmi l’umidità di cui ho bisogno. Anche noi, come il mondo, usurati dal male. Angosciati dalla presenza impalpabile della grazia.