Fra qualche giorno vado in vacanza. Mi devo svuotare. Quest’anno, da settembre a luglio, per la prima volta ho fatto due lavori: quello per i soldi e quello per – per qualcos’altro in cui c’entrano i soldi ma in modo decisamente secondario. Il secondo, un romanzo, non è una necessità economica, è in parte un investimento, è soprattutto una necessità biologica, un dovere. Senza i fiotti di metonimia che ne scaturiscono non posso vivere.
Quest’anno per la prima volta ho lavorato ogni giorno sul romanzo. Sono stremato, me ne vado in vacanza. Ho finito il decimo capitolo, l’ho corretto varie volte. Non è ancora passato al vaglio di Anna e di Luca – i crapuli cari di O Metis, i miei censori – ma ho fatto il mio, mi dico.
E invece no. Quest’estate – quello che resta di quest’estate, queste tre settimane di ferie non pagate da puro operatore economico di inizio millennio – devo tornare da Mister K.
Ho iniziato a fare le valigie. Due mesi fa, intuendo il giro della cosa, ho messo Il Castello da parte. “Devi rileggerlo.” Devo rileggerlo. Non è una questione di stile, ma una cosa decisamente più essenziale: è la posizione della voce rispetto a K.; la posizione di K. rispetto a ogni estraneo; la posizione di Kafka rispetto alla voce narrante. C’è una struttura a spirale là dentro, in cui origine e fine non sono chiari. Non si vedono – non ci sono.
Non ci sono: l’unica cosa chiara è che dopodomani me ne vado in vacanza. Spero nel buon esito di un processo già sperimentato: rilassamento attività corteccia prefrontale (vacanze) + pochi mirati stimoli letterari = idee, connessioni nuove, metonimie. Fra due giorni comincio una summer school da Mister K.