Sergente Romano: traghettare il meridionalismo da Storia Patria a canto di filiazione con la Terra?
Sergente Romano è il titolo del libro d’esordio letterario di Marco Cardetta, che offre un’esperienza mistica e perturbante consigliabile a quanti — come il sottoscritto — si aggirano con curiosità per i meandri del meridionalismo, ma anche a quanti siano semplicemente in cerca di una meditazione originale sulla storia come esperienza corale e polisemica, la storia prima dell’istituzionalizzazione in Storia.
Il brigantaggio conteso nella Storia
Una delle traiettorie più vivaci del meridionalismo contemporaneo consiste nello sforzo di recupero della memoria di un fenomeno come il brigantaggio post-unitario. Se nella quasi totalità dei casi si esce dalla scuola dell’obbligo con la convinzione che il processo unitario sia stato una marcia trionfale — l’anelato ingresso di una penisola a bagno nel Mediterraneo nella Storia Secolare delle Nazioni — le numerose Controstorie tendono a mettere invece in evidenza, del fenomeno brigantesco, il carattere di vera e propria guerra di resistenza contro un oppressore coloniale.
Al contempo, queste stesse Controstorie non mancano di una certa selettività nella lettura, che mette a fuoco un ventaglio limitato di possibilità per il presente. Laddove, per esempio, il processo unitario viene presentato semplicemente come l’invasione di uno stato sovrano — il Regno delle Due Sicilie — da parte del Regno di Sardegna, la tragicità degli eventi svoltisi oltre un secolo e mezzo fa rischia di restare in ogni caso confinata al piano della Storia Secolare delle Nazioni di cui sopra, ponendo l’idea di sovranità nazionale — e della sua sacralità, se mi si concede l’ossimoro — al centro di un (pur condivisibile) impegno di riscatto meridionale, che ne risulta allora colorato da tinte nazionaliste. E il nazionalismo, pur avendomi colto in alcuni casi entusiasta (come nel caso del referendum sull’indipendenza scozzese dall’Inghilterra neoliberale dei Tories), stimola sempre il mio lato ‘incazzoso’ (facendomi gridare ‘separiamoci!’ con le parole di Marco Esposito, o ‘carnefici!’, per dirla con Pino Aprile), e mi distanzia in primis dalla parte di me stesso che al Nord è nata e cresciuta, che è del Nord, e che divide il corpo con la parte di me che viene da — e che cerca — il Sud, generando una schizofrenia dalla difficile composizione, nel momento in cui impone una scelta tra diversi versanti di una staccionata sulla quale un meticcio emigrante rischia di restare impalato.
Gioia del Colle, 28 luglio 1861: storia corale di una carneficina rabbiosa
È a questo sentimento di ambivalenza che la lettura di Sergente Romano riesce a offrire espressione, attraverso un impianto narrativo che non cela la tragicità di quel frangente storico, ma che al tempo stesso resiste alla tentazione di addomesticare gli eventi secondo i canoni di una narrazione meridionalista-nazionalista. Con sforzo immaginativo davvero lodevole e insolito, Cardetta presenta una narrazione senza filtri dell’insurrezione avvenuta a Gioia del Colle il 28 luglio 1861, accompagnando uno dei suoi protagonisti — il Sergente Pasquale Domenico Romano — attraverso i preparativi e seguendolo con dovizia di dettagli, à la Tarantino, nel tritacarne di un’insurrezione incazzata e scomposta.
La narrazione di Cardetta non cerca di forzare il senso della storia in una direzione che abbia a tutti i costi delle tinte eroiche. Anzi, è come se si frantumasse continuamente la ricerca di un senso nel quale poter comporre ad unità — o ad esemplarità — il coacervo di storie, vendette, imprevisti, meschinità, entusiasmi e nostalgie che colorano un episodio distintosi soprattutto per il colore torbido della morte e del rosso del sangue.
E poi: progetti d’insurrezione discussi al cospetto di provoloni appesi, spedizioni e tentati agguati che cedono di fronte al proposito di un pasto in masseria, arringhe patriottiche troncate sul nascere, o profferite da bocche facilmente corrotte (come quella del manzoniano Padre Tinella sui Valori della Patria duosiciliana riflessi nel Vessillo Nazionale, subito prima di infilare la bocca tra le cosce di una gallina abbrustolita, a suggerire — in maniera quasi erotica — l’avida devozione).
La restaurazione del ‘legittimo sovrano’, insomma, pare più una nota a margine di un tessuto fitto di motivazioni le più mondane: da chi cambia fazione per la cancellazione di un legnatico, a chi si unisce agli insorti per vendicarsi di un torto subito, di un credito negato, o di una soffiata alle autorità, fino ad arrivare a chi, come il ‘brigante’ Trimonciello, si arruola nel tentativo di fuggire alla coscrizione nella Guardia Nazionale e finisce per essere comunque inghiottito dal turbinio degli eventi.
La Storia che si presenta come narrazione dell’Unità-come-liberazione, e in alternativa come smascheramento dell’Unità-come-colonizzazione, supporta in entrambi i casi una posizione nazionalistico-identitaria. Nel libro di Cardetta, invece, essa cede di fronte alla storia — polisemica, confusa, a singhiozzo e con la s minuscola — che ha invece inghiottito persone impreparate ad affrontarla (come può non venire in mente, qui, quell’altra pagina scura in cui l’eroismo partigiano ha assorbito ex post pure quelle che talvolta volevano solo essere silenziose fughe dalla coscrizione repubblichina, o in cui la militanza repubblichina ha gettato nella mischia, oltre ai fascisti della prim’ora, anche poveracci che non erano riusciti a sparire).
Cardetta accompagna infine il lettore al centro della battaglia per la riconquista di Gioia del Colle, nella quale succede di tutto: dalle vendette consumate con impunità e barbara risolutezza dagli insorti, all’offerta di passaggio tra le file dei briganti da parte di Guardie Nazionali (cioè altri gioiesi!) colte in un vicolo cieco — topograficamente e storicamente parlando —, fino allo spietato rastrellamento casa per casa in cerca dei briganti in rotta da pare delle forze unitarie. Il grande assente della narrazione è l’eroismo: esso si frantuma sulle lapidi dei morti che compaiono in latinorum alla fine dei capitoli centrali, come sul registro di una Chiesa, e dove non si distingue fra ‘cristiani’ dell’una e dell’altra fazione. Scorrendo queste liste, si scorgono personaggi, età e natali che interrogano attraverso la vita perduta la solidità degli ideali di cui è composta la Storia. Mostrando invece una città che si è mangiata da sola, da dentro: gioiesi che hanno ammazzano altri gioiesi, con la furia triste e sorda degli accoltellamenti tra fratelli.
Lo stile scelto dall’autore contribuisce in maniera decisiva all’impressione che l’oggetto del plot assomigli molto poco a una ‘lotta’, e molto di più all’auto-inghiottimento di una comunità in cui le divisioni cancellano il senso di appartenenza comune a una terra. Il procedere della narrazione, infatti, è volutamente poco cesellato, il linguaggio è potenziato dall’inflessione dialettale e dall’enfasi del ritmo vivente; insomma, è come ci si aspetterebbe essere il racconto a braccio da una generazione di gioiesi a un’altra — e forse, chi lo sa, il Cardetta (Marco) che mette per iscritto sta attingendo dal parlato del Cardetta (Marco Vito) che compare nei ringraziamenti, il quale a sua volta potrebbe avere tramandato l’esperienza di un Cardetta (Vito Leonardo), cui è dedicato un cameo nella banda del Sergente Romano …
La narrazione, priva di veri protagonisti, e nella quale tutti i partecipanti sono ricordati per nome, cognome, soprannome e natali, è infatti tipica delle culture orali dove la storia affidata al vento è l’unica memoria collettiva, che traccia una ‘via del canto’ (per usare un termine di Chatwin) utile a segnare e distinguere il territorio agli occhi di chi gli appartiene.
Riconciliazione … nell’ascolto del canto della Terra Madre?
Sergente Romano introduce una possibilità nuova sull’orizzonte meridionalista, e cioè che a interrogarci non sia soltanto la Storia degli eroi, ma anche quella tragica e senza redenzione dei morti di Gioia del Colle del 28 luglio 1861. Alla luce di questo punto di domanda, non è possibile richiudere questo fertile testo senza l’auspicio che le differenze (che si nutrono anche di Storia o, come forse direbbe Franco La Cecla, di malintesi — a voi distinguere tra i due, se mai fosse possibile) non ergano nuovi muri, ma si facciano cerniere per ricomporre mondi, e creino soglie da attraversare con umiltà per sanare le ferite in nome delle quali ci ammazzammo tra di noi, giocando a Guardie e briganti.
Cardetta sembra voler lasciare al lettore l’interrogativo, ma un abbozzo di risposta forse lo tenta nel momento in cui il canto fratricida di Gioia (del Colle) accenna a trasformarsi nella promessa di un canto di gioia, nel punto più cupo della narrazione, quando Romano è braccato dalle Guardie al termine dell’insurrezione, e senza via di scampo. Qui l’uomo Romano non si presenta più attraverso i suoi gradi di sergente, difensore della Terra dei Padri, ma trova nell’ora più buia l’umiltà necessaria per far parlare il desiderio profondo di riconciliazione che lo anima, si riconosce figlio-abitante della Terra-Madre. Amen.
Marco Cardetta
Sergente Romano
Bari, LiberAria, 2016
168 p.
In copertina: Giovanni Fattori, Arresto di briganti, 1864.