ARCHITETTI!
Tedio d’ottone che oscilla dal soffitto incenerito! Avvelena l’aria e i bisogni. La luce è viola piatta e gli improvvisi cavalloni di turchese. A chiazze, compare il pomeriggio: è qui che sono i fiorellini: sui parapetti.
Recinti di palazzi biancofango — costruiti alla bene e meglio, targa ’92 — occludono i canali onirici dell’infanzia scesa in strada. Balconi oblunghi come nasi solitari, appesi a pensare. Si aspetta il tramonto fumandosi l’inverno in una carta di giornale.
Piedi soffici e gonfi scivolano sulla finta maiolica ruvida e sporca. L’artigiano del blocco popolare trascina un grasso attrito leziosetto senza meta, con una svogliatezza da artistùcolo in accappatoio. Fiotti di catrame dalla gola.
Sorseggia saliva e soppesa un disco in vinile che poi lancia di taglio, a giro come un satellite, prendendo a pretesto la sua mira. Il disco volge lo spazio a suo favore, in isteria da Effetto Magnus. «Ti colpirà, languido capriolo.»
E il languido capriolo viene colpito, reciso il collo. Ne sgorga in rubini grezzi un valzer di Chopin, che piace a un bambino perso in pensieri bianco e nero. Da una finestra, un arabo schiumato e avvolto in un telo di spugna s’accascia sull’addome a ridere sguaiato — bocca da tenore e occhi da ladro. Il bambino piange da specchio mancato, come gli è più congeniale. Una madre – muta, severa, ammonitrice – s’infligge la punizione di non deglutire, osservando da statua a boccoli di grano saraceno l’intera avvisaglia di crisi condominiale. «È lo sfacelo», mormora una voce che si era alzata, divertita, un’ora prima, in mongolfiera.
Un vecchio cammina, al guinzaglio la sua tartaruga marrone e gialla. Senza fermarsi o togliersi il cappello, dice ridendo: «Non abito qui. Buon per me». Mentre sta per finire la frase, un altro vecchio — ma dalla pelle di tre gradi meno farinosa — si affaccia intorpidito, annacquato di luci, brandendo a mani unite un’ascia tutta ruggine, obliqua ignoranza annessa. «Meriti», dice il vecchio affacciato, «una lezione tardiva e diagonale.» La tartaruga volge il collo verso l’alto, ma lo perde a mo’ di ghigliottinamento, accompagnato con fedeltà dalla mano del padrone.
*
Il lento dondolare di un ottone dal soffitto scandisce un anno senza proteste formali. Silenzio, o forse dissenso; comunque, un fastidio in rumore – non concesso.
Il tramonto sbuffa polvere densa sul circondario. Il recinto di torri caduche è violato, come ogni sera. «Vedi? I falsi avori eretti a dèi indecisi», spara dal megafono quell’uomo in mongolfiera, come fosse nella stasi della masturbazione.
LE CORBUSIER
Ho preso nota
che sulle attese metalliche
troneggiano neri porti fluviali.
Gli sbuffi ingialliti da tempo perso e inedia; i lobi frontali sotto assedio già dalle cinque del mattino.
«Guardami», e fissa il pavimento, «ti sembro così deperita?» Lastricati di formiche in armamenti: una lunga marcia a ritroso.
*
La scure ossidata volteggia tra le nuvole; le nuvole costrette a dividersi di netto. «Ti trovo un po’ magra», e espira il fumo, «non deperita». Inumidisco gli occhi a comando, «Deperito sono io». Sorride, svincolata momentaneamente dal mito della Morte Gobba. Salta dal letto.
Dalla cucina, «Preparerò delle uova, come piacciono a te».
Mesi a sudare. Capriole scimmiesche fra cumuli di cenere. Ciò che ho guadagnato, ho perso.
Si sono infittiti i pensieri sul dove andare; con chi parlare; cosa credere. Valzerini di nausee gastriche. Incartapecorito sui discepoli di una scuola in fallimento. «Ho sbagliato», fisso l’abisso dal balcone. «Ma lo dico a voce bassa», sperando nessuno mi senta. Specialmente lei, di là, che sente e finge di non sentire.
Ostinazione infantile al massimo dei decibel. «Più piano!», dalla cucina. «No».
No. Non è il tempo per curiosare più in là del Naso Giallo. Il naso si consuma bruciando, cadendo per terra in stille di polvere, tra le formiche-soldato. Il mio naso allo stremo. «All’assalto!», carica la formica Generale. Cominciano a salire dal pendio erboso della mia gamba decomposta.
Seduto, in una pozza acida e salina, imploro la quiete a un quadro dai toni rossastri. Che ne sarà di quelle macchie ingenue, mi chiedo. «Delle uova ben cotte», dalla cucina. «Mangiale tu», iniziato alla cerimonia del pasto delle formiche-soldato.
Morsi decisi e pungenti. La formica Generale azzanna con impeto, per dare esempio e slancio; cavalcano impetuose ai suoi cenni di conquista. Hanno stendardi e briciole di pane sulla groppa: gloria nazionale sulla mia pellaccia putrida.
Deve aver sentito odore di resa, lei, perché dalla cucina corre con in mano una fiamma violetta, che mi scaraventa addosso: uno scroscio di fuoco verticale e rivitalizzante. «Maledette!», accanendosi sul mio cadavere. Un frastuono mimato. Sbatto le palpebre di riflesso.
*
Uomo di carbone. Ben svegliato. Mi alzo in piedi. «Un bel sogno. Cavalcavo nei viali del mercato. Tra file di frutta marcia», andando a sedermi a tavola. «Sogni il tuo quarto funerale», servendomi le uova, lei.
Cagna. Sprezzante, inerpicata sulle spalle, ad annusarmi il collo, preparando i canini per l’affondo. «Ho cambiato idea. Non l’avranno vinta», inforcando un tuorlo gommoso. «Ma allora», tornando ad occhi sbarrati, lei, «guardami: mi trovi deperita?»
AUTORADIO
Natante assonnato che insegue i suoi fiori carnivori perduti.
Cauto, calo una bustina di tè davanti alla radio, ogni mezz’ora. Esigo per dispetto che ci si scansi, visto come tira l’aria d’avantreno: lanciata, allungata, appuntita.
Sopra: una grossa luce eterna a scacchi, metri a losanghe, poi a blocchi. Furfanti illuminati schizzano senza riguardo o legame. Non basta aggrottare la fronte e sperare che scivolino lucidi, scaleni d’acciaio, a pancia all’aria. Resistono tagliando le nuvole a denti serrati.
Mi faccio pena. È un’ora mite e di morte – questo dico – e renderà amarogelida una giornata di agonia che pure era partita soffice; da tutti però c’è desiderio di rimandare, facendo finta di nulla. Dico, io dico – seppur domenica: è adesso.
Butto giù a incudine. Fendo. Le luci, piccoline, latrati di paura, oddio! aiuto! che succede?, le sorpasso mortificandole in pulviscolo. Alcune protraggono la loro immagine, o la loro morte, fin nella bocca dei loro padri, piloti, dal labiale spalancato in un gemito d’asino, messo in molitura in un frantoio elettrico, e spinto forte. Aiuto! Aiuto, no!
L’asfalto è un tappeto di lillà; accanto: pioppi e un fiume. Pesci che sguazzano e lucciole.
Ma è una notte, un’epifania gonfia d’alba, che filtra dal cruscotto. Si avvicina con giudizio, dice che è qui – dunque è la fine. Mi preparo. E neanche provo a darmi colpe, o redimermi; non ho sbagliato. Ero impaziente per un giorno che tardava ad arrivare.
Il pedale è steso. Arrendersi è di moda. Un capogiro devastante sarebbe la mia salvezza, ma punto dritto aerodinamico: seguo il bandolo, riavvolgo. Se mi sottraessi, non potrei più moltiplicarmi; le nuvole gravide di mercurio annuiscono all’immagine di un destino perentorio. «Volontà di ferro!» esclamano.
Gli omini si sbracciano, impressionandomi; gridi silenziosi, risucchiati dal vento che scoda sui finestrini aperti. Sorrido loro, sardonica giornata, nevvero?, a quanto pare… Si è qui, tutti insieme. E godiamocela, no?, la domenica.
SHOTGUN
Obliquo fra persone inchiodate. Smusso i gomiti a chi prende spazio che non gli compete, tenendo un occhio vigile sulle intercapedini relazionali. Ammantato di pece – diktat della città fotosensibile.
Bambini dai volti stracciati si calciano addosso teste di gatto. Qualcuno li insegue, affannato, obesa trachea a motore che strepita pietà. Gli obesi non acchiapperanno mai i bambini a vela.
Quattro vibrisse cadono dall’alto. La gente ricomincia il suo pascolo serale. Poliziotti indagano.
«Lei, mi dica», ma sfugge sparandosi un colpo in testa. Il sangue viscoso si aggrappa alla vetrina di un fast-food gestito da ratti bipedi. Mi guardano con biasimo. È la quarta volta che succede.
Tre silhouette stilizzate, supine, catturano gli sguardi del lungo viale metropolitano. Un’eclissi elettronica sfiora lo zenit. Poliziotti acquattati sniffano pulviscolo. «Sono morti, crediamo», dicono. La gente grida con due secondi di ritardo. «Ce n’è un quarto, vicino a quell’uomo dall’impermeabile scuro!», urla qualcuno. Io mi dileguo con un pensiero di lenzuola morbide, e così mi ritrovo nel letto.
La fica civettuola, mia vicina d’appartamento da quando si vive, in questo palazzo, dividendosi i pesi d’afflizione, è il colpo di magenta che serviva alla mia bacheca di punti fermi. Quello che sognavo.
«Vieni!» le dico, con lei che viene senza mai aver aperto bocca dacché ci conosciamo.
Di nuovo nella strada a usare la parte puntuta del naso come bussola, nel ridondare urbano.
Siamo seduti, io e lei, nel posto dove ci stiamo conoscendo per la prima volta, e io le dico: «Cerca di non mangiare proprio tutto, non ho i soldi» ma poi, per far colpo, aggiungo: «Sto indagando su un caso di scrittura, il cui soggetto è un triplice omicidio». La vedo chiudere la bocca e gli occhi, togliersi con un gesto unico camicia e reggiseno, e dal petto una suora di campagna mi saluta con la mano, che poi porta in mezzo ai denti, ammonitrice. «Era il sogno di mio padre» mi dice lei, ansimando.
Dal vetro del ristorante scorgo i ratti bipedi titolari del fast-food che portano sulle spalle sacchi neri dell’immondizia. La fica civettuola mi fa segno, ma la cosa non può finire di rimando, così, con solo due sponde, e allora tiro fuori dai calzoni la mia arma preferita, anzi, la mia seconda arma preferita, uno SHOTGUN bislungo con una radio incorporata, che mentre gracchia le note di “one of these days”, cantata e riarrangiata da JPS, spara un colpo di un fragore cavernoso che le sconquassa, spiana e disgrega la testa, piccolina.
Me ne scappo coi piedi a tracolla, tra le vie della città che ora s’è svuotata per un’eclissi improvvisa. Nel mio appartamento trovo le carte d’imbarco e una lettera scritta in bella calligrafia: “Scappa in direzione nord-ovest”, è l’attacco.
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In copertina Cowboy Bebop.