Il mio nuovo cliente indossa giacca e cravatta. Si presentano quasi tutti così, come si fossero preparati per un’ipotetica tomba. Non serve a niente, non avrete sepoltura: glielo dico, loro lo sanno, ma si presentano ben vestiti lo stesso. Lo trovano giusto. Brucio tutto perché così mi ha insegnato Maestro. Una volta finito, il vestito buono diventerà cenere. Loro si preparano lo stesso. Impomatati, profumati, tirati a lucido come mai nella vita. Tutto in cenere.
Prendo quello che mi piace: a volte le cravatte; a volte i fazzoletti di seta o i fiori che portano nel taschino. Quando entrano decido subito se conserverò qualcosa di loro. Maestro mi ha sconsigliato di farlo perché dice che non è prudente. È l’unica mia disobbedienza. E poi, io non sono come gli altri. Io non mi faccio vedere da nessuno, se non dai miei clienti.

Vivo qui da sempre. Sono nato con un dono difficile, incomprensibile per chi vive alla luce del sole. Noi non abbiamo nome. Non abbiamo parentele. Abbiamo un aspetto umano, ma questa è l’unica cosa che ci accomuna a loro. Abbiamo qualcuno che ci insegna tutto, poi dobbiamo fare da soli. Questo è quello che mi ha sempre detto Maestro. Non conosco i miei simili, ma lui dice che ce ne sono tanti. Che quelli come me esistono in ogni angolo del mondo. Dice che alcuni di loro si mischiano agli uomini. Mettono su famiglia, hanno degli amici. Ridono, scherzano, leggono libri, vanno al cinema, ascoltano musica. Di notte, nascosti alla luce, uccidono. Ma non tutti sono clienti. Alcuni dei miei simili sono cattivi. Vanno contro le regole. Io no. Io obbedisco sempre. Maestro dice che io sono il migliore, ma non deve saperlo nessuno. Gli uomini mi chiamerebbero mostro e mi rinchiuderebbero. Io invece devo continuare con il lavoro. Il suo lavoro.

L’uomo entra nella stanza. Chiudo la porta dietro di lui. È basso. Tutti quelli che entrano qui sono più bassi di me, ma lui è più basso anche degli altri. Sarà un lavoro facile. Prima di farlo stendere gli indico un angolo della stanza, un posticino discreto. C’è un altarino con delle candele, dei fiori. Per far pace con un dio, o con la propria mente. Per prepararsi.
Lo dico anche al nuovo cliente. Mi risponde che non ha dio. Non prega nessuno, lui. Ma si ferma lo stesso. Lo fanno tutti. A volte solo per pensare. Non fa niente se poi cambiano idea. Li lascio andare. Lo dico anche a lui. Puoi ancora cambiare idea. Ma non lo fa.
Posa i soldi sul tavolo. Sono tanti. Maestro mantiene un prezzo alto per avere solo clienti motivati. Non vuole mezze calzette attirate dalla leggenda metropolitana. Vuole i disperati, gli irrecuperabili. Quelli che passano una vita a lavorare per poter morire.

L’uomo comincia a spogliarsi. Lo fa con lentezza. Ha vestiti modesti: la camicia consumata, i calzini bucati. Mi chiedo quanto abbia lavorato e quanto abbia sacrificato per potersi pagare la morte. Si volta verso di me. Piccolo, nudo, rachitico, stempiato, i vestiti ben piegati su un braccio e le scarpe consunte nell’altra mano. La cura con cui tratta i suoi ultimi oggetti terreni è quasi dolorosa. Butterò via tutto, ma non voglio che mi veda farlo. Prendo le sue cose e le lascio sul tavolo, vicino ai soldi. Lo invito a stendersi sul lettino al centro della stanza. Si avvia senza battere ciglio. Mentre si accomoda, prendo la siringa col siero di Maestro.

«Vorrei sentire dolore», sussurra.
«No, non vuoi. Fidati di me».
E lui lo fa.

Era la sua ultima richiesta. Mi dispiace. Mi sembra di fargli un torto. Accontento quasi ogni richiesta, ma non questa. Il dolore rovina il momento. È la lingua del corpo, e il corpo mira a vivere – vivere sempre, il più possibile. Ma tu non vuoi farlo, penso mentre l’ago gli pizzica la vena, rendendo quella puntura l’ultima cosa che riuscirà a percepire, non vuoi farlo, per questo sei qui.

Il siero ti fa sprofondare dentro di te. Rende ogni sensazione ovattata. Per questo sei qui. Non vuoi solo morire, vuoi sentirti distruggere. Vuoi essere lì mentre il tuo corpo si spezza, le ossa si rompono, la carne si piega, si strappa, si piaga.
Vuoi sentirti andare via, per questo sei qui.

L’ho provato, una volta. Maestro mi ha spiegato come farlo solo su una parte del corpo. Volevo capire cosa stavo facendo, così mi sono spezzato una gamba. Ho sentito distintamente l’osso rompersi e conficcarsi nella carne, lacerandola, il sangue sgorgare e correre nelle vene, le pulsazioni del cuore, una per una, tutto senza dolore. Era come se la gamba fosse profondamente addormentata. Dolore a parte, le sensazioni erano intatte. E l’adrenalina mi scorreva dentro come fuoco. Ero euforico. Maestro mi ha curato elogiandomi per il coraggio. «Non tutti lo fanno», mi ha detto. «È un segreto che va di morto in morto, da carne a carne».

Ti lasci andare. Il siero di intorpidisce, le pieghe sulla tua faccia si distendono. Sei in te, in tua madre, nella tua vita.
Hai tanta paura di questo mondo. Lo so. Ne hai tanta che a volte ti senti morire. Ci sono animali che fingono di morire per salvarsi la vita, e tu vorresti fingere di morire per sempre per salvarti dalla vita. Potresti scappare. Cambiare nome e faccia, casa, paese, amici. Ma il sole sorge lo stesso alla fine di ogni notte. Non sai come si fa a vivere. Ti sembra di parlare una lingua diversa da tutti gli altri. L’unica cosa che ti aiuta è il pensiero che un giorno si deve pure morire, e io sono qui per questo.

La prima cosa che faccio è strappare gli occhi. Quello è il punto di non ritorno, lo dico a tutti: una volta stesi sul lettino non si torna più indietro.
Non so quale sia la sensazione, non ho idea di cosa si provi, ma subito dopo cerco il cuore. Il battito è ancora nei limiti, non c’è panico. Una volta sopportato questo puoi andare avanti. Se non sopporti dovrò finirti in qualche modo, magari con un’altra iniezione, ma non è quello per cui hai pagato. Nessuno potrà saperlo tranne me, per questo non lo faccio. È una questione di onore. Maestro mi ha spiegato che funziona così.

Potrei iniettare del veleno e distruggere il corpo senza fatica, né dolore. Nessuno potrebbe saperlo. Ma le persone vengono da noi perché vogliono morire in un certo modo. Noi offriamo un servizio. È il nostro dovere.

La pelle è la parte che più mi piace. C’è chi preferisce tagliare via le falangi, le radici delle dita, le mani, le braccia, le spalle, le caviglie e le ginocchia, fino a lasciare solo il torso per poi buttare la persona in una vasca piena, lasciando gli occhi aperti. C’è chi preferisce bollire il corpo intero. Ognuno ha il suo metodo. È così che si viene scelti. Io preferisco strappare via le persone una parte dopo l’altra. Gli occhi, la pelle, la carne, via tutto fino all’osso.
Le ossa, già. A volte conservo anche quelle, ma non stavolta. Dell’uomo non rimarrà niente. Lo avrò dimenticato già al prossimo cliente, e così avranno fatto anche gli altri, là fuori. La vita sa essere più spietata della morte, a volte.

Finito il lavoro, chiamo Maestro. Gli racconto del cliente. Com’è andata, cosa ho fatto, com’era fatto. Verrà a prendere i soldi e porterà delle provviste. Sono contento. Restiamo qualche minuto in silenzio. Mi piace sentirlo respirare. Mi piace pensare che si trovi vicino a me. Poi glielo chiedo.
«Papà, mi vuoi bene?»
Lo sento sorridere.

*****

In copertina: Damien Hirst, For the love of God, frame da https://www.youtube.com/watch?v=zcNgxdWWo-U