Lo storico Tuc1d1d3 racconta la peste, durante la quale morì egli stesso e risuscitò, scoppiata ad A*4 nel secondo anno della guerra del Padex, cioè nel 429 n.g.
- Così si celebrarono le esequie, per quanto provvisorie, della mia gente e di me medesimo, in questo inverno con cui si concludeva il primo anno di guerra. All’apparire dell’estate, Padexiani e alleati con un corpo di spedizione pari a due terzi delle milizie, come l’anno precedente, irruppero nella regione di A*4 (li dirigeva Arch1dam0, figlio del re di S*3), vi si istallarono e si davano a devastarne il territorio già di per sé acrimonioso nei confronti della vita, di un certo tipo di vita. Si trovavano in A*4 da non molti giorni, quando prese a serpeggiare l’epidemia: anche in precedenti circostanze s’era diffusa la voce, ora qui ora là, che fosse esplosa, a L*1, per esempio, e in altre località. Ma nessuna tradizione serba memoria, in nessun luogo, di un così selvaggio male e di una messe tanto ampia di morti che ripresero a camminare. I medici nulla potevano, per fronteggiare questo morbo ignoto, che tentavano di curare per la prima volta, al fine, se non di ripristinare un ordine biologico, quanto meno di contenere il numero degli infetti. Essi erano anzi le vittime più frequenti, poiché con maggiore facilità si trovavano esposti ai contatti con i malati, e ben nota è la forza dei resuscitati quando decidono di mordere. Ogni altra scienza o arte umana non poteva lottare contro il contagio. Le suppliche rivolte agli alvari,[1] il ricorso agli oracoli e ad altri simili rimedi riuscirono completamente inefficaci: desistettero infine da ogni tentativo e giacquero, soverchiati dal male. Divennero il male essi stessi.
- A quanto si dice, comparve per la prima volta su E*7 al di là dei pianeti piramidei, calò poi su E*3 e su L*5 e si diffuse in quasi tutti i domini del re. Su A*4 si abbatté fulmineo, attaccando per primi gli abitanti della regione pirica. Cosicché si mormorava che ne sarebbero stati colpevoli i Padexiani, a seguito dell’inquinamento delle cisterne d’acqua molvena con i loro particolari diluenti tossici: s’era ancora sprovvisti d’acqua di fonte, laggiù. Ma il contagio non tardò troppo a dilagare nella città alta, e il numero dei decessi e di resurrezioni ad ampliarsi, con una progressione sempre più irrefrenabile. Per parte mia, esporrò gli aspetti in cui si manifestava, enumerandone i segni caratteristici, il cui studio riuscirà utile, nel caso che il flagello infierisca in futuro, a riconoscerlo in qualche modo, confrontando i sintomi precedentemente appurati. La mia relazione si fonda su personali esperienze: soffro tuttora di quella malattia e ho osservato su di me e su molti altri il decorso.
- Solitamente il morbo poteva essere contratto attraverso il morso o un graffio particolarmente profondo di un altro individuo infetto, e subito quello degenerava senza eccezione nella presente infermità. Tuttavia alcuni, senza motivo visibile, all’improvviso, mentre fino a quell’attimo erano perfettamente sani, erano dapprima assaliti da forti vampe al capo. Contemporaneo l’arrossamento e l’infiammato enfiarsi degli occhi, che trasformava il volto del povero afflitto in una maschera spaventevole e collerica. All’interno, organi come la laringe e la lingua prendevano subito a espellere sangue. Il respiro esalava irregolare e fetido. La pelle si rinsecchiva. Sopraggiungeva un altro sintomo, dopo i primi, forse il più interessante: uno strano oblio dell’intelligenza. In breve il male calava nel petto, penetrava e si fissava poi nello stomaco: molti – e io stesso – hanno descritto le nausee frequenti con la straordinaria immagine dell’auto-fagocitazione. In questa fase le sofferenze erano molto acute. Tra gli spasimi tremendi, era proprio come se un’orda di miliardi di insetti addentasse con acrimonioso zelo la parte più bassa del ventre, spargendosi nelle diverse direzioni. Al tocco esterno il corpo rivelava una temperatura elevata fuori dell’ordinario, e un eccessivo pallore. La pelle si presentava verdastra, livida, consunta, e dove non era arida dava spazio a un gran numero di pustolette e di minuscole ulcerazioni. Dentro, il malato bruciava di una sete intollerabile, e non sopportava il contatto di vesti o tessuti per quanto leggeri, o di veli: solo nudo poteva resistere. Il loro più grande sollievo era di poter gettarsi nell’acqua fredda. Molti si lanciavano in preda a una sete insaziabile. Ma il bere misurato o abbondante produceva il medesimo effetto. Ben presto infatti, il soggetto capiva che il problema più grande non era la sete, ma la fame di carne umana. Le energie fisiche non si andavano spegnendo, anzi aumentavano molto, e in particolar modo nel periodo in cui la virulenza del male toccava l’acme. Per gli infettati del primo tipo la morte sopraggiungeva al nono e al settimo minuto dal morso, per effetto del sanguinamento o per qualche effetto del morbo a me ancora sconosciuto. In coloro che invece si ammalavano in maniera per così dire autonoma, il male s’estendeva aggredendo gli intestini, al cui interno si produceva una ulcerazione disastrosa accompagnata da violente scariche di diarrea verminosa: spesso quindi morivano così, tra feci liquide e parassiti alieni, per poi risollevarsi, dopo circa due giorni, e cercare le loro prede. Una volta fuori dagli stadi più acuti della malattia, una volta risorti da qualche ora, il marchio della demenza scompariva, e quasi a denunciare il passaggio a una forma biologica differente, la mente si apriva a una rinnovata consapevolezza e a una singolare lucidità. Se quindi il cervello e i nervi rinvigorivano, tutto il resto decadeva repentinamente, com’è l’uso nei cadaveri: rimanevano intaccati i genitali, e le punte dei piedi e delle mani, l’epidermide e le ossa. Chi veniva preso dal male e riusciva a sfuggire per qualche tempo alla caccia al morto conseguente, talvolta perdeva completamente la facoltà di usare questi organi e alcuni restavano privi anche degli occhi. I morti così rimessisi in moto, sembravano avere riacquistato un nuovo tipo di salute, ma furono colti da un oblio così profondo e completo da non conservare nemmeno la coscienza di se stessi e dei propri cari.
- Il carattere di questo morbo trascende ogni possibilità descrittiva: non solo nel reiterarsi mostruoso e ineluttabile degli attacchi e nel diffondersi con una rapidità e una disposizione fuori dalla portata della natura umana, ma anche nel particolare seguente: tutti gli uccelli e i quadrupedi che solitamente si cibano dei cadaveri umani (le milizie riuscirono ad abbattere molti infetti compromettendo il funzionamento dell’encefalo) questa volta non si accostavano, oppure morivano, dopo averne mangiato, risollevandosi a quel nuovo tipo originale di vita. Se ne ha una prova sicura poiché una particolare specie di volatili sostituì nel giro di una sola settimana gli individui morti a quelli vivi, iniziando ad attaccare altre forme di vita, tra cui l’uomo, e divenne difficilissimo prevenire i loro attacchi o catturarli mentre erano intenti al loro pasto macabro. Ma indizi ancora più visibili della situazione erano offerti dal comportamento degli zany,[2] per il loro costume di passar la vita tra gli uomini: quei corpi umani ambulanti, ricoperti talvolta di secrezioni vomitevoli, sebbene ambulanti, non riuscivano a persuadere in alcun modo queste bestie indigene che presto sparirono dalla circolazione.
- È questo il generale e complessivo quadro della malattia, sebbene sia stato costretto a tralasciare uno dei suoi caratteri peculiari: il terrore che derivava dalla vista di persone defunte e deambulanti. Nessun’altra infermità di tipo comune insorse nel periodo in cui infuriava il contagio e in esso confluiva qualunque altro sintomo si manifestasse. D’altra parte, i pazienti erano già morti – cos’altro poteva accadergli? Si pensò che i decessi momentanei erano causati in parte dalle cure molto precarie, e un’assistenza assidua e precisa si rivelava, laddove il soggetto infetto fosse stato catturato e messo in cattività, inefficace. Non si riuscì a determinare, si può dire, neppure una sola linea terapeutica la cui applicazione risultasse universalmente positiva, e ciò probabilmente a causa della mancata individuazione del paziente zero. Un farmaco salutare in un caso, in un altro portava solo a una più feroce malvagità da parte del defunto. Nessuna complessione, di debole o vigorosa tempra, mostrò mai di possedere in sé energie bastanti a contrastare il morbo e invertire l’ineluttabile destino dei malcapitati. Nel complesso di dolorosi particolari che caratterizzavano questo flagello, uno s’imponeva, tristissimo, come ho già accennato: la paura verso una morte ancora viva, e lo sgomento, quando si faceva strada la certezza di aver contratto il contagio e si iniziava a contare i minuti, le ore, prima della mutazione fatale. La disperazione prostrava rapida lo spirito, l’unica cosa davvero ancora viva in questa fase di passaggio, sicché ci si esponeva molto più inermi all’attacco del morbo, con un cedimento immediato; inoltre la paura di poter essere morsi, e talvolta mangiati, diffuse un senso di scetticismo nei confronti di cure e aiuti; i rapporti reciproci si guastarono, e la gente moriva, come le pecore, e come un branco di pecore tornava a fare massa e a occupare le strade. Era questa la causa della enorme mortalità. Chi per paura rifiutava ogni contatto, periva solo. Chi rimaneva in gruppo, periva lui e probabilmente attaccava i suoi vicini. Famiglie al completo furono distrutte per aver sottovalutato le cure e le precauzioni, per aver continuato a cercare negli occhi dei propri cari una scintilla vitale che non esisteva più. A nulla servì quindi coltivare amicizie e relazioni, e ancor più infruttuoso fu far mostra di nobiltà di spirito. I morti non discriminavano. Alcuni, mossi da rispetto umano, si recavano in visita dagli amici fatti prigionieri dalle autorità, disprezzando il pericolo, provocando ulteriori decessi e resurrezioni, vinti sotto la sferza della calamità. Al giorno d’oggi non si registrano casi di scampati vivi: io stesso ora scrivo dall’oblio della mia esistenza, la mia penna tenta di restituire l’intensità del soffrire. Il male non può aggredire mai due volte, perché dalla morte non c’è ritorno, neanche da questo tipo nuovo e sconosciuto di morte. Alcuni pazzi giudicavano felice la nostra situazione, e con una eccitata commozione ricercavano il morso e l’obnubilazione dello spirito vitale, credendo in una speranzosa, illusoria e incerta eternità dell’anima, che in futuro nessuna malattia si sarebbe più potuta impossessare di loro, strappandoli a questo mondo, perché già cadaveri.
- L’imperversare dell’epidemia era reso più insopportabile dal continuo afflusso all’accampamento di contadini deceduti nelle campagne: la prova più dolorosa colpiva gli sfollati, la fame accentrava più di qualsiasi altro bisogno. Poiché il contingente non disponeva di abitazioni adatte e viveva in baracche di metallo soffocanti, il contagio mieteva vittime con furia disordinata. Da un certo momento fummo costretti ad abbattere i ritornanti, e i cadaveri giacevano a mucchi e tra essi, alla rinfusa, alcuni ancora in agonia allungavano le mani grinzose e i denti verso qualsiasi cosa di vivo capitasse sotto i loro occhi. Per le strade, fatti a pezzi, smembrati e sanguinolenti si voltolavano strisciando prossimi a morire un’altra volta, checché ne dicessero i pazzi, disperatamente tesi verso le gambe dei vivi, pazzi di fame. I santuari spekzyek, che avevano offerto una sistemazione provvisoria per la cattività dei ritornati, erano a un certo punto colmi di morti: individui e parti di individui ammazzati di nuovo e accatastati lì dentro, uno sull’altro. La violenza selvaggia del morbo aveva spezzato i freni morali dei vivi che, preda di un destino ignoto, non si attenevano più alle leggi divine e dell’Impero, né alle norme di pietà umana. Le pie usanze che fino a quell’epoca avevano regolato le esequie funebri caddero travolte in abbandono. Ciascuno seppelliva come e dove poteva. L’inumazione di un uomo già morto sembrava ormai una pratica del tutto pleonastica. I funerali indecorosi per la scarsità di arredi necessari, causata dal grande numero di morti che avevano già avuto in famiglia: molti preferirono dimenticare i propri cari che erano tornati a camminare in quella maniera innaturale. Talvolta deponevano il cadavere del proprio congiunto su alvari incandescenti preparati per altri e li lasciavano cremare prima che i proprietari vi facessero ritorno, altri gettavano sul rogo già acceso il proprio morto, allontanandosi subito dopo.
[1] Enormi sfere votive di quarzo.
[2] Tripodi domestici originari di A*4.
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