Già quando i due gemelli fecero capolino dal ventre della madre con le teste, che allora erano molto piccole, nessuno sapeva chi fosse chi, e da allora fu sempre il loro destino quello di essere scambiati. È vero che i loro genitori nutrivano il desiderio di tenerli distinti, pregarono anche il prete di battezzarne uno Jesper e l’altro Bernhard, ma il prete temeva che nel momento solenne e agitato del battesimo avrebbe finito per chiamare Jesper Bernhard e Bernhard Jesper, perciò respinse la preghiera dei genitori e battezzò entrambi col nome di Otto.
Storie strane è uno di quei libri che danno l’impressione, a lettura conclusa, che il bello debba ancora venire: la prima opera di Villy Sørensen è una raccolta divertente ed esplorativa, che nei suoi momenti migliori (Teodora e Teodoro, Il caso di omicidio – Un idillio kafkiano, Le tigri) riesce a contaminare un sostrato conosciuto (il racconto morale e fantastico) attraverso uno sguardo angolare e molto personale, suscitando una curiosità feroce per i suoi lavori più maturi.
Sørensen ci diverte perché si diverte, e il suo sbigottito incanto dinanzi ai limiti delle coercizioni sociali ed esistenziali è percepibile perché sentito nell’intimità: nella loro poliedricità, infatti, queste storie strane esplorano tutte il tema dell’inadeguatezza dell’essere umano di fronte alla vita, al cosmo, a se stesso, alle sue stesse domande e alle sue stesse creazioni. Non solo è impossibile, per i personaggi sørenseniani, far fronte alle situazioni che gli si pongono davanti, ma anche leggerle e interpretarle, o leggersi e interpretarsi, per collocarsi all’interno del movimento-vita in un modo che sia coerente, sensato, logico, gestibile.
Quando ci si trova di fronte alle indagini per un omicidio, innanzitutto è necessario chiarire a se stessi che prima che l’omicidio sia veramente risolto è impossibile dare una stima vincolante di quando si presenterà la soluzione stessa. Solo nel momento in cui l’omicidio è risolto si ha in mano la chiave per comprendere ciò che è avvenuto prima. Si comprenderà dunque che un omicidio è due cose diverse. Se infatti si vuole affermare che un omicidio è un omicidio, indipendentemente dal fatto che sia stato risolto o no, si salta troppo elegantemente oltre la tragica situazione che l’essere umano deve accettare come propria. Per l’essere umano non esiste una posizione più alta di quella dell’essere umano. Perciò è impossibile parlare dell’omicidio come di un dato di fatto, perché l’omicidio non è un dato di fatto, ma un enigma. Per quanto sia tragica questa consapevolezza, siamo però costretti a riconoscere che prima che l’omicidio sia risolto non possiamo sapere assolutamente nulla dell’omicidio, nemmeno se l’omicidio sia avvenuto. Solo quando l’omicidio è risolto sarà possibile acquisire la consapevolezza che si sia davvero trattato di un omicidio.
Se la narrazione fallisce nel suo atto di riordino della realtà, di reinterpretazione della stessa, allora non resta altro da fare per il narratore che adattarsi a ciò che racconta, non tanto per cercare un senso ma per cercare un sollievo, una distanza che renda più facile l’accettazione dell’assurdo e delle contraddizioni; e allora l’invenzione si fa tanto più folle e sfrenata quando lo stile diventa asciutto, e il racconto non spiega ma si limita a riportare i crudi e deliranti fatti, incuneandosi in quelle crepe del reale da cui sgorga la migliore letteratura.
Quella che non è menzogna ma arte.
Villy Sørensen
Storie strane (1953)
trad. it. Bruno Berni
Roma, Del Vecchio Editore, 2014
pp. 238