di Michel de Montaigne (Saggi, Libro I, Cap. XXI)
traduzione di Jennifer Poli

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Fortis imaginatio generat casum[1] dicono i sapienti. Io sono tra coloro che sentono la grandissima forza dell’immaginazione. Tutti ne sono colpiti ma alcuni ne sono sconvolti.
Il suo segno mi scuote; non avendo la forza di resisterle, la mia arte consiste nello sfuggirle.
Vorrei vivere nella sola compagnia di persone sane e gaie. La vista delle altrui angosce mi turba sensibilmente e il mio sentire ha spesso preso il posto del sentire di un terzo. Uno che tossisce in continuazione finisce per irritarmi i polmoni e la gola. Visito più mal volentieri i malati dei quali dovrei, per dovere, interessarmi, che coloro ai quali tengo poco e che considero meno.
Afferro il male che studio e lo ospito in me. Non trovo strano ch’essa dia e la febbre e la morte aquelli che la lasciano fare e la applaudono.
Simon Thomas fu un grande medico del suo tempo. Mi sovviene di quando lo incontrai a Tolosa presso un ricco anziano con la polmonite: discutendo col malato dei metodi della sua guarigione, gli disse che uno era quello di darmi occasione di godere della sua compagnia, che fissando i suoi occhi sulla freschezza del mio viso e il pensiero sull’allegria e il vigore che sgorgavano dalla mia adolescenza, e riempiendo tutti i sensi di questo stato di floridezza in cui mi trovavo allora, così, le sue condizioni avrebbero potuto migliorare; ma dimenticò di dire che le mie avrebbero potuto anche aggravarsi.

[…]

Noi ribolliamo, tremiamo, impallidiamo e arrossiamo sotto gli scossoni della nostra immaginazione, e riversati nelle coltri, sentiamo i nostri corpi agitati dal loro movimento, fino quasi a morirne.
E la gioventù bruciante nel sonno si eccita a tal punto, che soddisfa in sogno i suoi amorosi desideri.

Ut quasi transactis soepe omnibus rebus profundant
Fluminis ingentes fluctus, vestémque cruentent[2].

[…]

È verosimile che il principale credito che si dà alle visioni, agli incantesimi e a tali effetti straordinari provenga dalla potenza dell’immaginazione che agisce sulle anime volgari, più deboli.
Si è fatta così tanta presa sulla loro credulità, che pensano di vedere ciò che non vedono.
Sono ancora in dubbio se queste ridicole associazioni dalle quali il nostro mondo si trova ancora così intralciato, a tal punto che non si parla d’altro, siano in realtà impressioni del timore e della paura. Poiché io so per esperienza che un tale – di cui posso rispondere come di me stesso, e su cui non poteva esserci alcun sospetto di debolezza, e tanto meno di incantamento – avendo sentito raccontare da un suo compagno di una incredibile impotenza che lo aveva sorpreso nel momento in cui meno ne avrebbe avuto bisogno, trovandosi in una simile occasione, fu all’improvviso così fortemente colpito nell’immaginazione, che incorse nella stessa sorte. E da allora in poi fu soggetto a ricadervi, poiché il brutto ricordo del suo inconveniente lo divorava e tiranneggiava. Trovò rimedio a questa fantasticheria con un’altra fantasticheria: ovvero confessando lui stesso tale sua debolezza e mettendo le mani avanti, la tensione del suo animo trovava sollievo perché, esponendo quel suo male come previsto, il suo impegno diminuiva e gli pesava meno. Quando egli ha avuto modo –  per sua scelta,  con la mente sbrogliata e svincolata, e con il corpo nelle adatte condizioni –  di farlo prima verificare, comprendere e sorprendere dalla consapevolezza altrui, è guarito d’un colpo. Con chi si è stati una volta capaci, non si è più incapaci se non per legittima debolezza.

[…]

Vorrei che vi domandaste se ci sia solo una delle parti del nostro corpo che si rifiuti di operare secondo la nostra volontà e che spesso agisca contro la nostra stessa volontà. Ognuna di esse ha le sue proprie passioni, che le risvegliano o addormentano senza il nostro permesso. Quante volte i movimenti involontari del nostro viso svelano i pensieri che tenevamo segreti e ci tradiscono davanti ai presenti.
Quella stessa causa che anima tale membro, anima a nostra insaputa anche il cuore, i polmoni e il polso; la vista di un oggetto gradevole spande impercettibilmente in noi la fiamma di una febbrile emozione. Ci sono forse solamente quei muscoli, quelle vene che si alzano e si abbassano senza l’accordo, non soltanto della nostra volontà, ma anche del nostro pensiero? Non ordiniamo ai nostri capelli di rizzarsi o alla nostra pelle di fremere di desiderio o terrore. La mano spesso va dove non le comandiamo di andare. La lingua si paralizza e la bocca si ferma quando vuole. Anche quando non abbiamo niente da mettere sotto i denti e glielo proibiremmo volentieri, la voglia di mangiare e di bere non si risparmia dal sollecitare le parti a lei soggette, né più ne meno di quell’altra voglia: e allo stesso modo ci abbandona proprio quando, fuor di contesto, le pare opportuno. Gli organi che servono a liberare il ventre hanno le loro dilatazioni e contrazioni, oltre e contro il nostro volere, come quegli altri destinati a scaricare i nostri rognoni. Per testimoniare l’onnipotenza della nostra volontà Sant’Agostino riporta di aver visto qualcuno che comandava al suo di dietro di emettere tutti i peti che voleva, e che Vives, rincara con un altro esempio del suo tempo di peti sincronizzati secondo il ritmo dei versi che venivano loro pronunciati; ma questo non suppone affatto la più pura obbedienza di quel membro: poiché ne esiste un altro di più indiscreto e chiassoso? Si aggiunga che ne conosco uno tanto turbolento e imprevedibile, che da quarant’anni obbliga il suo padrone a scoreggiare con una lena ed un impegno così costante e interrotto, e così lo porta alla morte.

[…]

Perché le storie che prendo in prestito, le riadagio sulla coscienza di quelli da cui le prendo.
I discorsi vengono da me, si sostengono sulla prova della ragione, non dell’esperienza: ognuno può aggiungervi i suoi esempi, e chi non ne ha alcuno, non si persuada che non ve ne siano, visto il numero e la varietà dei casi. Se non scelgo bene gli esempi, che un altro lo faccia per me.
Anche nello studio che conduco, dei nostri costumi e comportamenti, le testimonianze della fantasia, purché siano credibili, servono al pari di quelle vere. Accaduto o non accaduto, a Parigi o a  Roma, a Jean o a Pierre, è sempre una forma della facoltà umana: della quale sono utilmente avvertito da quel racconto. Lo osservo e ne traggo ugualmente profitto, sia esso ombra o cosa concreta. E tra le diverse versioni che spesso offrono le storie, mi servirò di quella più rara e memorabile. Ci sono degli autori il cui scopo consiste nel dire gli eventi. Il mio, se mai potessi arrivarci, sarebbe quello di dire ciò che può accadere. È giustamente permesso alle scuole di supporre delle metafore anche quando non ve ne sono affatto. Io tuttavia non faccio così, e sorpasso in questo modo, con la mia superstiziosa religione, ogni fedeltà storica. Agli esempi che lancio qui – tratti da ciò che ho udito, fatto o detto – mi sono proibito di osar alterare persino le più insignificanti e inutili circostanze. La mia coscienza non falsifica uno iota, la mia scienza non so. A questo proposito, mi inoltro a volte in pensieri che bene potrebbero convenire ad un teologo, a un filosofo, e a tali persone che possiedono squisita ed esatta coscienza e prudenza di scrivere la storia.

 


[1] Una forte immaginazione genera l’evento.

[2] Quasi come se avessero compiuto l’atto, spesso spargono copiosi fiotti di seme e macchiano la veste.

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L’articolo è parte di Ô Metis V, Invenzione