Ancora una volta il Filologo – che cerca cerca, qualcosa sempre trova. E trova un testo su Inglorious Basterds di zio Quentin. E dice:
“Infami Quijano e Fharidi, io ve lo mando così come l’ho trovato, il testo.
Ma mi sorge il dubbio che chi l’ha scritto il suddetto film l’abbia visto una sola volta. “
Metodo, signori. Leggere sive ruminare. Sive pascolare.
Una volta c’era il teatro della crudeltà. Tante parole spese in suo onore, un trattato persino (Il teatro e il suo doppio di Antonin Artaud) dove piuttosto in dettaglio si dice cosa un autore debba fare per far correre i brividi lungo schiena dello spettatore : tutto fuorchè ucciderlo, minacciarlo di morte seduta stante. Quante opere, però, tale tradizione ha prodotto? Poche.
Carmelo Bene ne ha tratto sicura ispirazione; nelle sue opere però il gioco intellettuale della dissociazione, l’occhio fisso all’osservanza del modello teorico prevale sempre, in qualche modo, sul flusso del testo. Ci si interroga e ci si specchia, una sincope continua.
Da anni invece Tarantino ci offre una versione sua propria di tale tradizione il cui epicentro, fiotti di pomodoro a parte, è l’elemento narrativo – e tuttavia in modo peculiare.
La cornice della sua ultima opera, Inglorious Basterds, è piuttosto definita: la Francia, e Parigi, durante l’occupazione nazista (1941-1944). Quattro elementi, sugli altri, ne fanno il tessuto narrativo: la peripezia – il gioco continuo del caso, ed inestinta fonte d’ironia.
Il ritmo – il nocciolo duro dell’opera: il richiamo delle parti, la composizione e l’alternanza dei tempi scenici, la ricchezza organica. Ed inoltre, la musica: iperbole, ossimoro, strumento ansiogeno o viceversa dilatatore di spazi.
I dialoghi – anche qui: densità; alternanza e varietà di registri, in alcuni casi all’interno di una stessa scena. Lo stile è aulico, basso, carico di riferimenti e figure concettuali o sporco come una carie tra i denti.
La regia, infine – la misura della rappresentazione: gli interventi improvvisi del narratore, i cambi di prospettiva, la coesistenza di diversi gradi di scrittura.
Questo film pare voglia restare in superficie, accontentarsi di parlare esclusivamente agli istinti più fisiologici. Eppure a guardarlo sconcerta l’arsenale d’ironia con cui viene tessuta ogni scena, recitata ogni battuta, ed infine ripresa e ribaltata persino la storia, quasi fosse quest’ultima solo un mero pretesto – e si tratta di una storia piuttosto cara alla civiltà occidentale.
C’è poi una libertà creativa rara, che da un respiro ampio, satiresco alla cosa: uno si chiede allora – e dovrebbe chiederlo a Sofocle – se l’elemento splatter, i fiotti di sangue e le incisioni della carne non concorrano a rinnovare il concetto di ironia tragica.