Ho sentito rinomati opinionisti definire l’ultimo lavoro di Tarantino, Django unchained, capolavoro – solo per la scelta di chiamare il personaggio femminile (l’oggetto della vendetta) Brunilde. (“Ma come? Una schiava negra, Brunilde? Mi vi rendete conto…” E giù risatine a bocche ovali).
Altri invece a dire l’opposto – reo Tarantino di copiare se stesso per l’ennesima volta*. Ma non è questo il punto.
Diciamoci le cose in faccia: mai come altrove, il grottesco tarantiniano mi ha fatto pensare: Faulkner! (Grazie al cazzo, direte: siamo lungo il Mississippi, a metà ottocento, tra negri e negrieri…cosa c’è di più southern gothic del southern gothic?) Ma non è manco questo il punto.
La ricetta, è vero, resta la medesima: la vendetta è il piatto e l’appetito vien sbranando; il registro (la lingua) sboccato e alto allo stesso tempo, perfetto; e la musica amplificatrice, dilatatrice – epica, pomposa, parodica (segnalazione: compare per la prima volta in Tarantino un pezzo hip hop – poteva mai mancare in tema black?)
Come in Inglorious Basterds anche in Django si gioca coi meccanismi propri del teatro greco (ironia tragica): nella scelta del tema storico e “fondante” (siamo a due anni dalla guerra civile e dall’abolizione della schiavitù), si gioca con ciò che lo spettatore sa e si aspetta che accada, si gioca a pompare e rimestare il calderone da cui schizza fuori la vendetta, si gioca a ribaltare (o meglio, anticipare) il corso stesso della storia o “mito fondatore”.**
Come in Inglorious Basterds, si assume che ciò che si combatte, la causa stessa della vendetta, sia in fondo male in sé – una cosa evidente o scontata. Qui, in effetti, la questione non è morale ma sintattica. Il male in sé, infatti, elimina o quantomeno aggira d’un colpo la noiosa questione (non solo noiosa, dico: a volte addirittura neo-realista e meschinella) della psicologia. Perché un’azione?
A differenza di Inglorious Basterds, dove tale aggiramento è indolore (a prima vista, quantomeno), in Django la cosa è essenziale – per un difetto o una giravolta necessaria della trama: perché, dottore tedesco e cacciatore di taglie, vuoi aiutare Django alla vendetta? Senza questa risposta – e questa domanda, che si pone due volte nel film – la cosa non può andare avanti. E invece va avanti, arrancando.
E in effetti Django unchained crolla quando cade il dottore tedesco – motore e passepartout fino a quel momento e d’improvviso puro ingombro o ricordo, accidente. Il resto – mezz’ora almeno – è di fatto un lungo anti-climax annaffiato di ragù (carne e pomodoro, a lungo: “‘o raù adda peppià”).
Come in Inglorious Basterds, il centro è una lunga scena conviviale (si mangia, si beve e si inganna in grande stile satyricon) dove la tensione, per sfregamento e ironia e ironia e sfregamento, sale e infine scoppia: e ciò che doveva essere non è più. A differenza di Inglorious Basterds, è in questa peripezia che crolla il tutto. ***
A differenza di Inglorious Basterds, infine (anzi: appunto) è proprio lo scoppio (lo schizzo) della vendetta a venire in ritardo, già crollato – fuori tempo o quasi superfluo – e allora la vendetta stessa pare privarsi di quel suo fondante elemento o effetto – quello che l’antologista del mondo greco ha detto catarsi.
Se ne deve forse concludere che i nazisti sono più infami dei negrieri?
*Copiare se stesso? Ah! Royalties rule.
** “They never seen a nigger on a horse”
*** In entrambi i casi, il filo della trama è così sottile che quasi non resiste a due visioni. E questo non è propriamente un difetto: uno vergine è una volta sola, mica due.
Leggo alcune espressioni critiche negative sul mensile letterario italiano 451 collegato a The New York Review of Books (e leggibile anche online) riguardo a Diango Unchained, che mi inducono ad andare a riguardarmi, quando possibile, il film del regista italo americano solitamente da me apprezzato. Il titolo della recensione è ‘Wagner con le pistole’, dove si spiega perché Spike Lee avrebbe boicottato il film per rispetto dei suoi antenati sostenendo che “La schiavitù americana non era uno Spaghetti Western di Sergio Leone.”
L’articolo di Alfharidi mi sembra più o meno sulla stessa linea (a proposito, siamo sicuri che la schiava Broomhilda, così è chiamata nell’articolo firmato Cristopher Benfey, abbia un nome di derivazione europea come Brunilde?) Ma forse sto andando fuori tema.
Uscendo dalla sala cinematografica mi era parso che il film avesse trattato l’orrendo crimine della schiavitù con il solito stile di Quentin Tarantino, che, è risaputo, può piacere o non piacere ma perlomeno ti fa pensare-ragionare-discutere. E non soltanto ironicamente sorridere, direi. Concludo (superficialmente) affermando che al cinema andrebbe riconosciuto lo stesso diritto che diamo per scontato debba avere la letteratura, e cioè : si usi la forma che si vuole, anche la più anomala, ma se l’argomento è cosa seria lasciamo al fruitore, in questo caso lo spettatore, il diritto di metterci anche del suo nell’interpretare, ovvero leggere l’opera cinematografica.
Ciao Enrico,
riguardo a Brunilde, nel film viene fatta esplicita referenza al mito dei nibelunghi, non credo ci siano dubbi al riguardo.
Concordo completamente sul diritto che è del cinema così come della letteratura, di fatto la mia “critica” riguarda la sintassi del film, la sua struttura. Apprezzo molto Tarantino, l’ho studiato, se vuoi, per questione narratologiche mie proprie, ed il risultato (un po’ superficiale o comunque non esaustivo) è questo testo. Ce n’è un altro sul blog su Inglorious Basterds, dimmi che ne pensi se puoi.
Saluti
Ciao Alfahridi (cazzo, questa volta il tuo nome l’ho scritto correttamente).
Il film Inglorious Bastards non l’ho visto. Ormai è fuori sala, lo cercherò in dvd o altrove, poi ti scriverò cosa penso della tua recensione.
Lasciami cogliere un occasione che non ha nulla a che fare con il Quentin, ma che per me è importante: vi siete mai intrattenuti nel vostro blog su “Il gioco del mondo” di Julio Cortazàr? Io penso che quel romanzo non può non essere letto. “Chi non ha letto Cortàzar è perduto”, ha scritto Pablo Neruda.
Saluti.
Ciao Enrico – su Cortàzar concordo. Ci ingegneremo a includerlo. INtanto, di tradizione latino-americana e tra i maestri di Cortàzar stesso, avevo promesso Pedro Pàramo qui sul blog. Putroppo ho prestato il libro ad un’amica che ora si trova a centinaia di chilometri da me e per scriverne qualcosa ho bisogno delle note che a suo tempo ho preso (a penna, non a matita) sul libro stesso.
Riguardo al mio nome, cuidado: la sua arcaicità a volte causa uno spostamento dell’h davanti o dopo la vocale. Così, a seconda che lo trovi scritto in frammenti piuttosto medio-orientali o nord-africani, cambia.
è un nome pre-bembistico, legato a quella tradizione regionale non ancora intaccata dalla fissazione monolitica e petrarchesca della lingua – fissazione operata nel 500 principalmente da Pietro Bembo (ved “Le prose della volgar lingua”).
Saluti e grazie per le discussioni interessanti che ne vengono fuori. A presto.