“I have no interest at all in such things. But I am very interested when someone is suffering from a magical delusion. Even more precisely, I am interested in delusions that are a result of art-magic. And do you know how long you’ve been under the influence of this art-magic delusion?” (T. Ligotti, “Gas Station Carnival”, Teatro Grottesco, Mythos books, 2007)
C’è un Grand Guignol ma in questa di scena il sangue è incidentale – nessuno si aspetta il Teatro Grottesco ed eccolo qua.
Tredici racconti, una sequenza di azioni e spettacoli. Thomas Ligotti è proprio questo che fa: mette in opera la sua versione della Commedia Umana. Qua arriva l’orrore: lo show non si ferma al palco. Anche se non lo aspettiamo, in questo teatro grottesco ci siamo dentro fino al collo e dalla nascita, in qualunque reincarnazione si possa pensare di essere.
Le scenografie sono semplici e dirette, mai suggerite. Ligotti ambienta dove conosce e in luoghi che sono sotto gli occhi di tutti, basta aprirli. Fabbriche abbandonate ma solo dall’uomo, villette e quartieri rimasti disabitati se non per chiacchierate presenze e individui pazzi, uffici e catene di montaggio che si ammantano di quel bizzarro che è l’inganno di essere individui. Di fronte a questo, abissi sono cantine e depositi industriali, messaggi dementi e voci incomprensibili vengono dagli incidenti della nevrosi quotidiana. Gioco dei segni: Ligotti è di Detroit, ha visto la decadenza della Rust Belt. Nel Teatro, ancora più che in Grimscribe (invidia per i grandi titoli di Ligotti!), la scenografia rappresenta ambienti e quartieri suburbani in cui i processi di manutenzione di case private e spazi pubblici si sono spezzati e interrotti, dove non sono gli umani a regredire a diversi stadi ma le pompe di benzina e l’offerta al pubblico di beni di consumo. Succede che gli ambienti si svuotino degli umani senza episodi da fine mondo, forse per noia à la Schopenauer. Ci mostra tante Innsmouth senza diversi destini nell’oceano o tare genetiche sovrannaturali. Alcune case e attici sono detti infestati, ma è la testa dei personaggi a esserlo e alcune sono più infestate di altre.
Basta pochissimo perché la scena del Teatro Grottesco si animi. L’arrivo di un nuovo sindaco, la sostituzione di capo reparto e poi dottori con le loro scienze e spiriti, strambi predicatori, un nuovo artista antinatalista. Assassini di bambini e pericolosi individui rimangono sullo sfondo, la scena comincia quando tra i personaggi arriva un diverso burattino. Ligotti ci mostra le terapie che i suoi attori svolgono, più o meno volentieri. I protagonisti narranti si dedicano a esplorazioni insensate, lavorano come impiegati in aziende tanto sciocche da apparire misteriose e i nevrotici vanno assunti in fabbrica, immessi in compulsioni che solo apparentemente sono utili. Il lavoro è una delle terapie, il sistema di reclutamento, l’immissione forzata – in quanto è facile essere manipolati, c’è la possibilità di essere sani e dimenticare l’insensatezza della vita senziente. Poi c’è l’arte, l’esercizio e la tensione verso higher hopes, che è magica. Certi attori di Ligotti si muovono alla ricerca di artisti paradossali e deformi che creano per suggestionare ed esaltare l’esistenza di amebe e micosi. Dolore e malattia incidono appena sui burattini che altro non sono se non i corpi degli attori di Ligotti. Non c’è nel Teatro un incidente dell’esistenza che trasforma come una febbre o un’operazione chirurgica in Ballard. I personaggi non devono scoprire un culto o svelare l’identità del nuovo arrivato, o da dove proviene la minaccia all’integrità fisica come alla routine. Sembrano consapevoli i manipolati, l’illusione dell’individualità è minima e ripetuta e comunque non estirpabile. Ancora come in Lovecraft qualcuno emerge da un sotterraneo. In Ligotti è un padre povero, disinteressato all’attività delle donne della casa, intento a cercare un successo in qualcosa che è misterioso a tutti ma non a lui stesso.
La scrittura narrativa di Ligotti è come meccanica e così la lettura del Teatro. Difficile è interrompere lo scorrere delle pagine, testi che pochissimo concedono a metafore e altri artifici. Poi a tratti spiazza e the soft black stars have already begun to fill the sky. In molti racconti e nel loro insieme lo scrittore rende benissimo le sue considerazioni sul mondo e la vita (umana). Anche quando l’elemento è presente, questi non sono racconti sul sovrannaturale quanto piuttosto sull’innaturale stato dell’uomo come animale convinto, e fatto convincere, di essere unico.
Prova difficile d’autore quella di negarsi l’entrata in scena di un mostro. Per Ligotti c’è già ed è l’uomo, monstrum senza divinità. Non è necessario che Azatoth continui a sognare, di deliri onirici osceni e incomprensibili provvede bene il burattino che si sbatte nel Teatro per cui all of the myths of Mankind are nothing but show business. La paura viene dalle atmosfere piene di “disordine e commozione” e non ha una funzione catartica ma solo ludica, il burattino che è l’attore protagonista di tutti i racconti nel Teatro in fondo sospetta la verità che lo scrittore neocinico Ligotti conosce ma nello show alla fine fa finta di niente, al massimo verrà reclutato da burattini di ordine superiore nella scala sociale.
Il tratto che più avvicina Ligotti a Lovecraft è la costruzione dei personaggi. Ligotti si nega un arsenale narrativo di avventurieri, esploratori, studiosi alla Miskatonic ma rimane fedele al maestro dell’orrore cosmico che ebbe a scrivere: “Probably the reason is that in the sort of work I am trying to do human characters matter very little.“
Indifferente per il lettore è il condividere il pensiero antinicciano di Ligotti. Per esplorarlo nel merito c’è il suo libello The Conspiracy against the Human Race, lettura amata quanto filosoficamente avversata. Lì e non solo si è formato Rust Cohle che poi nella Bible Belt agisce. È il fortissimo canone del Ligotti narratore, non particolarmente vario ma solido come pochi, quasi un Kafka. Così lontano dal New Weird che il suo bizzarro è in una modalità da paulo maiora canamus. Ha una panoplia di suggestioni non ricca ma chiara e definita e che in e nel Teatro Grottesco mette in mostra alla grande. Ci fa vedere i fili che reggono e dirigono i pupazzi, li indica al lettore. Senza accusarci, ci fa vedere che sappiamo della loro esistenza fin troppo bene.
Esce con il Saggiatore, in italiano, nella traduzione di Luca Fusari, uno che traduce bene.
Take my money che il superuomo e l’Imperatore sfidano i grotteschi Dei che ghignano.