Il 16 aprile Carlo Bondoni ha cominciato la transizione verso una forma di esistenza vegetale. Il paziente aveva settantanove anni; gli stessi che indica tutt’ora il referto, finché l’autopsia non ci permetterà di sezionare il fusto rinvenendo verosimilmente una serie di anelli concentrici. Il paziente godeva di uno stato di salute accettabile. Pressione nella norma, apparato cardiocircolatorio funzionante, recenti radiografie che indicavano una polmonite in remissione: nessuna traccia di alveoli avventizi predisposti per la fotosintesi. Ogni giorno il paziente si sottoponeva a sedute di un’ora nella camera di stimolazione sensoriale, tecnologia olandese, a giorni alterni praticava riabilitazione emotiva e s’incontrava con me una volta a settimana. Di mattina il Bondoni visionava la videocassetta che la mia squadra aggiornava a cadenza mensile. Conteneva spezzoni volti a ricostruire nell’ippocampo i ricordi consumati dalla demenza; alcuni li recuperavamo da nastri di cinepresa, altri li simulavamo al computer, altri ancora li inventavamo. Come recitava la quarta di copertina del mio libro uscito proprio quel mese, le bugie sono le architravi più solide per reggere la nostra percezione della realtà. Il paziente accettava di buon grado la compagnia della moglie che ai suoi occhi appariva alternativamente come una badante, la figlia emigrata in America o il fantasma della sorella morta a due mesi in una scatola da scarpe. Secondo la testimonianza della donna, quel 16 aprile il Bondoni si sedette in poltrona dopo pranzo e disse «Signora, perché continua a portarmi fuori da casa mia? Mi dimentico la strada». All’epoca mi trovavo all’estero per un ciclo di conferenze. I miei assistenti riportarono la conversazione sul fascicolo del paziente ma ho preso l’abitudine di trascrivere tutto sui miei diari. Nel pomeriggio il paziente bevve un caffè, lesse le barzellette della Settimana enigmistica, infine prese sonno durante la sigla delle previsioni del tempo mentre la moglie preparava la farinata per cena. Al momento di invitarlo a tavola il Bondoni aveva sviluppato un fittone che penetrava nel pavimento, insieme a un circuito di polloni che lo avviluppava alla poltrona. Il dorso delle mani, così scrissero i paramedici intervenuti d’urgenza, era coperto da un velo di tessuto parenchimatico. Polso radiale, dieci battiti al minuto. Pressione arteriosa non pervenuta. Potei visitarlo soltanto alla fine del mese. Mi diressi alla villetta dei Bondoni appena sceso dall’aereo, curioso di valutare la trasformazione del mio paziente in un’angiosperma. Siccome non ero munito di valigetta e stetoscopio, non mi riconobbe. Il Bondoni mostrava già un bell’apparato foliare, con rami che scaturivano dai giovani internodi prossimi al meristema apicale. Quando entrai in soggiorno strinse i rami intorno alla figura tunicata del fusto. «Che buon odore di xiloma che abbiamo qui, signor Bondoni», dissi quando mi fui fatto vicino. Battevo l’indice sulla montatura degli occhiali, sperando che li associasse alla mia persona. C’era, in effetti, un sentore di legno umido nella sala. «Professore», disse. Spezzettava le sillabe, schiudendo appena la bocca che somigliava alla cicatrice lasciata da un innesto. «A chi vuole più bene lei, al figlio maschio o alla figlia femmina?» Me lo chiedeva ogni volta, senonché io e mia moglie non avevamo prole. «Che combina, Bondoni? Mi diventa un autotrofo?» tagliai corto io. Poi gli presi il polso, nove pulsazioni al minuto. Respirava una volta ogni due minuti. A un certo punto mi tirò da parte e parlò a voce bassa.
«Entrano un mucchio di sconosciuti in casa mia, professore. Quella signora dev’essere una zingara che ruba le posate. Poi c’è un’altra donna che mi bacia su tutt’e due le guance e piange. Non si sta male, ogni mattina mi fanno vedere un film diverso, ci sono quegli attori americani biondi, belli, ma lo sa com’è, alla mia età, vorrei mandare via da casa tutta questa gente».
Passati i dieci minuti necessari per completare la frase, risposi. «Non avrà mica paura degli estranei, Bondoni? Lei è così ben piantato a terra. Un tronco d’uomo, oserei dire».
Ci pensò su col labbro tremolante. «Paura, forse sì, professore. Ma almeno posso chiudere gli occhi e fare finta di essere una jacaranda. Piaceva tanto a mia moglie la jacaranda, professore». Intuii un sorriso dai suoi occhi cloroplastici.
«Dov’è sua moglie adesso, Bondoni? Me la può salutare?»
«Buonanima, è morta. Però qualche volta cammina su e giù per il corridoio. Vedo anche il suo figliolo ogni tanto, professore. Quello che compie dieci anni in ottobre. Gli faccia un bel regalo, dovrebbe volergli più bene al figlio maschio».
Andai via senza premurarmi di erudirlo sulla mia mancata attitudine alla procreazione. «Che ne sa lei di figli, Bondoni», dissi, consegnando la parcella alla moglie. «Tra un po’ qui ci riproduciamo per talee e margotte».
Tornai a trovarlo il mese successivo. Io e il mio team avevamo interrotto ogni cura. Per fortuna si era trovata un’altra sistemazione per la camera di stimolazione sensoriale, tecnologia olandese, ma il filmino fasullo non lo aggiornavamo più. Il paziente sfoggiava un tronco robusto, ingentilito dalla lanugine giovanile, e la chioma si piegava all’ingiù. Le foglie erano pinnate, dai contorni lisci, zigrinate al centro. Il Bondoni era di buon umore: mi salutò in quindici minuti.
«Non si spinga troppo a fondo con quelle propaggini, Bondoni», dissi. «C’è la fognatura qua sotto».
Effettuai le misurazioni, polso radiale sceso a sei pulsazioni al minuto, poi misi via gli attrezzi e mi pettinai il ciuffo tra le dita. Il paziente però aveva ancora qualcosa da raccontarmi, le sue mani nodose mi si erano aggrappate al braccio. Chiamai l’ufficio per cancellare l’intervista e l’aperitivo del pomeriggio. Al ritmo del Bondoni ne avrei avuto fino a sera tarda.
«Un giorno stavo guidando sotto la pioggia e mi dimenticai come si azionavano i tergicristalli. Un’altra volta mi persi sulla strada di casa. Pur di non chiedere indicazioni ai passanti girai alla cieca per tutta la notte. Poi mi scordai che mio figlio festeggiava il compleanno in ottobre, come il suo, professore. E ho cominciato a confondere i nomi degli attori biondi nel filmino».
Mentre parlava io impugnai matita e quaderno per disegnare uno schizzo delle sue radici avventizie. Inglobato nel rizoderma, il volto si distingueva appena: due rami si biforcavano a ogiva, lo incorniciavano e si arcuavano come proboscidi. Quel soggiorno stava stretto alla figura inastata del Bondoni. Le branche più folte s’insinuavano tra i macinacaffè e le lampade ad alcool esposte come soprammobili, altre si arrampicavano sulla libreria tra enciclopedie avvolte nel cellofan. Mi allungai a toccare le gemme che imperlavano le fronde, i calici setosi che racchiudevano le corolle.
Risposi velocemente. «Fa parte del normale decorso. Dimenticherà come si mangia, come si respira, come si vive. Come un parto al contrario, indietro fino all’embrione, ma più doloroso – oppure no. Si faccia furbo, Bondoni, l’Alzheimer le racconta bugie, e non si aggrappi a questi ricordi, non sono suoi».
Le scaglie di corteccia intorno a quella che era stata la bocca ebbero un fremito. «Stia attento quando va a casa stasera, non ci torna da molto tempo. Segua la strada, non si perda, e se piove attacchi subito i tergicristalli».
È ottobre mentre scrivo. I tramonti sono pazienti in questi giorni e io ne approfitto per guidare finché c’è luce, quando esco dall’ufficio. Passo spesso davanti alla villetta dei Bondoni. Apro il finestrino e sporgo la testa, il profumo dei fiori porpora scende fino alla strada e mi piace vedere quella cascata di campanule penzolare libera dalla finestra e invadere il marciapiede. L’interno è inagibile, un sottobosco pluviale, e io non entro per non disturbarne la fauna. Quando piove fermo il motore e annuso la reazione resinosa tra acqua, pneumatici e catrame. Oggi ho tirato fuori dalla valigetta l’ultima TAC del Bondoni e il disegno che feci quel giorno; li tengo con me in auto insieme a un palloncino azzurro, un pacchetto stropicciato e una foto dove i bambini sono belli e biondi come in un film americano e giocano tra i gambi altissimi di crisantemi piumati. Ho affiancato la lastra e lo schizzo sul parabrezza. In controluce, i vicoli ciechi e gli orridi del suo cervello morente non sono dissimili dal nuovo aspetto vegetale del Bondoni. Da una parte i lobi della corteccia cerebrale rinsecchita, come una noce, il cingolo che tiene attaccati due emisferi il cui dialogo si è estinto, l’amigdala che inietta paura nel locus coeruleus; dall’altra, radici mangroviate che si sciolgono in una gerarchia di linee e curve, un sistema limbico pulsante e gemmato, che si propaga sotto le ruote e sotto l’asfalto in una colonia clonale, in un pleroma, in un frattale aleatorio, in un delta di linfa verde che scorre fino a un giardino con tre tigli capitozzati e una casa con un’unica finestra accesa e l’erba alta in fondo a un vialetto che conosco ma che non saprei ricordare.