La salvezza o il suo contrario, la morte, il loro accadere e raprresentarsi sono umani, uno potrebbe ancora dire.
A me, invece viende da chiedere: riuscite a immaginare un animale, che pensa alla morte o chiede per sè una salveza che non sia la fuga? Lo trovereste ridicolo, no, voi passanti qui e altrove? Certo, lo trovereste! Ed è altrettanto sicuro che non sbagliereste nel giudicare così, perchè null’altro ci resta, ut videtur, che tempo solo per lavorare e mai per prendersi un respiro e ridere, una buona volta (visto che è solo mimo il ridere moderno), dell’uomo!
Ecco a tal proposito, un’interessante considerazione di Claudia Chauchat – o almeno così dice, lei, di chiamarsi – una nostra amica che vive qui a Crapula (da poco ha traslocato dalla sua città, fideisticamente legata all’Inquisizione). Chi è Claudia, in realtà? Fino all’altro giorno pensavo fosse un un’altra, invece…
Ora, però, basta parole di presentazione!
Mi si conceda la possibilità di soddisfare il desiderio ardimentoso di poter partecipare a questo blog, da me frequentemente letto, fonte inesauribile di grasse risate (solo nella risata il grasso è “salute”).
Or bene, no, non è nella mia indole comporre “acrostici indolenti in uno stile d’oro”, né guardare “i grandi Barbari bianchi”, perché, Signori, sia chiaro, appare necessario soffermarci su un altro fattore, sul fatto cioè che i barbari siamo noi.
Non si scorgono vichinghi o antiche dinastie dagli orizzonti di terra bruciata dell’est mitopoietico. Ovvero, mi vedo abitante spasmodica di una terra barbarica.
Non è nelle intenzioni, né in questo intendiamo mostrare gusti o voglie di provocazioni o di facili fraseggi (Il Tramonto dell’Occidente).
Non abbiamo lo spessore di non renderla una banalità né fortunatamente la “limitudine”[1] di non cogliere il facile banalismo. Perché siamo qui? Per parlare del tempo e dello spazio, del tempo e dello spazio vissuto da un qualsiasi uomo occidentale, da un contemporaneo, da noi medesimi.
Diciamolo subito e scriviamolo senza retorica: siamo antikantiani e non ci preoccupiamo nel dirlo così dichiaratamente. Ovvero, non crediamo affatto che le categorie di tempo e spazio siano “a priori”, siano forme trascendentali della oggettivazione coscienziale. Per carità, nessuno tolga a Kant il posto che gli è dovuto! E’ sicuramente il punto culminante della possente e a suo modo saccente logica occidentale che interpreta se stessa come Autorschaft. Ma non è con Kant che vogliamo problematicizzare. E’ piuttosto con il tempo e con lo spazio.
Ora, non è certo una novità che parlare di tempo e spazio significhi parlare del mito e della sua ritualità. Sappiamo benissimo il perché. E’ con esso che, fino a prima che giungesse l’età moderna, l’uomo dischiudeva un mondo di significazione storica (gli storici “di professione” diranno che il mondo mitografico dei “primitivi” ha una significazione “zoologica”, ma lasciamoli pure crogiolarsi tra scaffali impolverati di biblioteche dimenticate, dove non si sillaba più alcun discorso. Si sibila, dunque!), quest’uomo, dicevamo, viveva il tempo ciclicamente, come una perenne morte ed un’eterna rinascita, un immanente pericolo e una continua possibilità di riscatto.
Non ci stancheremo mai di ringraziare in questo senso i profondi esploratori della ciclicità come principio di declinazione spazio-temporale (pensiamo all’Eliade, a Kerenyi, allo stesso Adorno). E’ in quest’ambito che noi guardiamo quest’uomo come un viandante di una via già infinitamente percorsa in altri millenni, da altre culture. E allora l’immagine del Cristo che muore e risorge è un’incarnazione mitica di Tammuz e di Adone, fatti a brani dal cinghiale e poi destinati a risorgere a primavera. Ogni volta che Tammuz risorge la natura si risveglia e si mostra feconda, ogni volta che il Cristo risorge l’umanità è discolpata e nuovamente pura. E’ il riscatto dal peccato.
In quest’orizzonte ogni civiltà aveva la sua téchne, beninteso, intesa più “grecamente” possibile. Mi aiuti in questo un fastidioso dell’etimo. Mi riferisco al vecchio[2] Heidegger, non a quello che si impensieriva nel far mettere al suo editore una x ogni qualvolta compariva la parola “essere”, il dannatissimo “sein”. No, ci riferiamo all’Heidegger della Questione della Tecnica, che della tecnica dà un’espressione che a noi piace tanto: essendo ogni produzione (intesa come poiesis) un “far-avvenire di ciò che – qualunque cosa sia – dalla non- presenza passa e si avanza nella presenza”, la tecnica è un modo del disvelamento[3].
Ma, Signori, Dio è morto. E sarebbero inutili ulteriori argomentazioni in merito. Nieztsche scorre ancora nelle vene di tutti. Ma intendiamo con questo dire soprattutto che la nostra è una tecnica che del tempo ciclico non sa che farsene. Essa è l’espressione compiuta del tempo “mortuum”, di quello meccanico e meccanicizzato, del “tempo-lavoro”. Si lavora per vivere, ma poi, quando si vive?
Ed ancora Heidegger che può aiutarci, quando dice che il disvelamento della tecnica moderna non è un produrre (dunque non apre ad un mondo di significazione storica), ma è una provocazione, ovvero “massima utilizzazione con il minimo costo”[4]. Per far questo, esemplifica con un’immagine molto bella: il Reno, sulle cui sponde è impiantato la nuova centrale elettrica. E ci sembra opportuno lasciare per un attimo la parola all’autore:
“Per misurare, sia pur approssimativamente, tutta l’enormità inquietante che qui domina, prestiamo attenzione per un momento al contrasto che qui si rivela tra l’espressione Il Reno, inteso come il fiume incorporato nella centrale [Kraftwerk] e il Reno detto di un’opera d’arte [Kunstwerk], l’inno di Hölderlin che porta questo titolo. Si obietterà che il Reno rimane pur sempre il fiume di quella regione. Può darsi, ma come? Solo come oggetto impiegabile per le escursioni organizzate da una società di viaggi, che vi ha messo su [bestellt] una industria delle vacanze”[5].
Siamo oggetti impiegabili, in quanto il nostro spazio e il nostro tempo è in funzione della sua natura di impiegabilità. L’uomo antico, si rapportava al tempo e allo spazio in funzione della sua natura disvelante. In qualsiasi momento, invece, noi misuriamo il valore in base a dati di natura statistica. Affrontiamo carriere calcolate nel valore dell’impiegabile, scegliamo strade dell’utilizzabile, tutto si declina nel senso dell’utile. Occorre una corazza troppo forte per non cadere nella trappola. Il mio è un monito che lancio a me stessa e che condivido nella vacua speranza che non sia un semplice eco ridondante. Il Waldgänger[6], che combatte ogni giorno il lato marziale della testa di Giano bifronte della tecnica moderna, è perennemente in pericolo, privato ogni dì della sua libertà originaria. La ricerca di quest’ultima appare come l’unica via di significazione. Buona fortuna.
Claudia Chauchat
[1] Ci piace il termine “limitudine” e ci scusiamo dell’autoreferenzialismo. E’ l’idea di lima che vi soggiace a rendere maggiormente il concetto di esso come finitudine.
[2] Nota dell’Editore: già Nietzsche, sul Konïgsberghese: “Era stato un sogno: e il primo a farlo era stato il vecchio Kant”. (Al di là del bene e del male, ma mi associo al Claudia nel di dire “per pietà, nessuno tolga a K. già che gli è dovuto!”)
[3] M. Heidegger, La questione della tecnica, in Le arti nell’età della tecnica, (a cura di) M. Guerri, Mimesis, Milano, p. 47. Citiamo questa edizione per menzionare il volume curato da Guerri, che racchiude saggi esemplari per caratterizzare il modus vivendi et operandi della società moderna.
[4] Ivi, p. 49.
[5] Ivi, p. 50.
[6] La parola deriva dal grandissimo Jünger e dal suo Il Trattato del Ribelle, edito Adelphi.