di Jorge Carrión.
tradotto da Ylenia D’Alessio.
L’articolo è apparso nel supplemento culturale de La Vanguardia, Cultura(s) e sul sito Prodavinci.
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Forse il grande mistero della cultura contemporanea è la sincronia collettiva. Perché in alcuni momenti, dinanzi a certi temi, grandi gruppi incrociati si mettono d’accordo: bisogna leggerlo, seguirlo, diffonderlo? Tra i maggiori esempi recenti ci sarebbero Frozen – che sta per convertirsi nella produzione più influente della Disney – e Game of Thrones (Il Trono di Spade in Italia). Nessuno dei due partiva da zero: Frozen non solo si rifà alla tradizione dei film d’animazione del marchio, ma anche a questa struttura transmedia chiamata “principesse”; e Game of Thrones non solo è la traduzione teleseriale di una saga letteraria di sommo successo ma è stata anche accompagnata da fumetti, guide, maschere e bibliografia secondaria (l’ultimo libro spagnolo porta la firma di Pablo Iglesias), per non parlare dell’impulso del turismo audiovisuale (che in questo caso è favorito dalle molte localizzazioni internazionali). Perché si tratta di convertire l’opera in parte della tua vita quotidiana, in tutti i livelli, quello ludico, intellettuale, politico, da viaggio.
Le serie della terza età dell’oro già non si distinguono tra i generi: quello che importa è la qualità. Però i generi persistono, in un modo o nell’altro, come fanno le subculture e Game of Thrones aveva come biglietto di ingresso l’appoggio dei fan del fantasy in generale e di George R. R. Martin, in particolare. HBO, con i suoi nudi, la violenza esplicita e l’eccellenza tecnica, apporta i suoi fanatici.
Sono subito due le grandi comunità che sostengono dal minuto zero. Dopo occorre solo l’arrivo della sincronia collettiva e, con essa, comunità multiple, inidentificabili, inaspettate fino a che la serie si converte in gran fenomeno. La differenza importa: Boss o The Knick sono serie molto buone, se non migliori di True Detective ma solo in quest’ultima è intervenuta la sincronia collettiva. Non è un caso che in True Detective si convocasse tanto il fandom di Lovecraft e Ligotti come i sofisticati hooligans di HBO.
Abituati all’eroe unico, di mezz’età e maschio, Game of Thrones ci ha fatto credere che Ned Stark ci avrebbe accompagnati per alcune stagioni. Imperdonabile errore. Impara la lezione, spettatore, impara le regole di questi scacchi di oppositori illimitati. Non ci sono eroi unici, ma un polieroe antieroico, un mostro a più teste. In questo momento (spoiler) restano quattro protagonisti indiscutibili e tutti si sono inscuriti: Arya Stark, Daenerys Targaryen, Tyrion Lannister e Jon Snow. Saranno sgozzati, accoltellati, distrutti a colpi di pietra o martello, precipitati, decapitati? Gli eroi perdono, in Game of Thrones, letteralmente la testa. Si esasperano, si mettono una maschera di ferro che li trasforma in un’altra persona e sono, soprattutto, decapitati. Anche questo crea dipendenza. Come il cliffhanger, che è una droga minima, l’attesa della prossima morte inaspettata e violenta è ansiosa. Immaginazione e adrenalina. Quelli che hanno letto i romanzi già sanno chi sarà il prossimo nella lista – però, a volte, ci sono cambi nella sceneggiatura, personaggi nuovi e quindi assassinii imprevisti. Perché Martin scrive in solitario, però una serie è un lavoro collettivo, soggetto alle variabili del caso, dell’industria e di noi stessi, i sincronizzati.
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Jordi Carrión è autore della trilogia Las huellas (Los muertos, Los huérfanos, Los turistas, pubbicati in Spagna da Galaxia Gutenberg) e di svariate opere di saggistica. Il suo Librerie uscirà in Italia in settembre 2015 per Garzanti.