Mickey era stanco morto. La scintilla vitale gli si era spenta da tempo. Battiti del cuore e onde del pensiero si erano zittiti appena smisero di disegnare. L’animazione era diventata un lavoro per macchine elettroniche, nuovi schiavi esanimi. Walt Disney, che non era l’uomo bonario e simpatico spacciato dal reparto Pr dello studio cinematografico, era morto stecchito. La sua testa mozzata giaceva in un iper-frigorifero nucleare. Minnie, la topa di cui doveva essere innamorato, era diventata anch’essa un blocco di ghiaccio nero dalle lunghe sopracciglia, con la bocca eccessivamente bistrata. Mickey sapeva cosa fa provare l’amore, ma ciò che significava per lui non l’aveva mai reso felice. L’amore era una cosa grossa e nera che appariva di colpo per scomparire dentro un buco altrettanto nero.
Si sentiva sradicato, devitalizzato, vecchio. Nato da un calamaio e da un’idea rubata, costretto a vivere un destino prefabbricato, forzato a esprimere emozioni aliene, aveva comunque voglia di tornare, di far rifluire fonte della nerezza, quel sangue vitale dal sapore finale dove tutto era iniziato.
Mickey non disse addio a nessuno, allo Studio. Minnie oramai non aveva nulla da dire. Era stata schiacciata dalla vita, o dalla simulazione della medesima. Era stata resa muta come Pluto, quella lontana stella animale. Mickey non salutò nemmeno Qui, Quo, Qua o come cazzo si chiamassero i mocciosi che gli esecutivi ossessionati dalla neotenia avevano rifilato loro. Tanto meno a quel suo presunto amico, quel mostro dentone di un’altra specie. Non riusciva nemmeno a pronunciare il suo stupido nome. Non lasciò una nota. Partì, e basta.
Hollywood rese il non-saluto. La città dei sogni diceva sempre solo, “Hello! Credevi di essere una stella, ma ti abbiamo creato noi. Sei un nostro prodotto, ora e per sempre, baby. E quando svaniranno i felici ricordi d’infanzia, abbiamo svariate altre strane creature in fase di nascita. Saranno sempre più grandi, ancora più luccicanti”.
Viaggiare fu alquanto problematico, per esseri di grafite e inchiostro. C’erano di mezzo carta, aerei, treni merci, camion, postini e fattorini. Il modo nuovo di trasporto era semplice, istantaneo e senza costo, ma non privo di dolore. Veniva sempre lasciato indietro qualche elettrone o fotone, protone o pixel, comunque li chiamassero gli stronzetti smorfiosi allo Studio. Stavi male, quando uscivi all’altro lato. Ti sentivi più piccolo, impoverito.
Ora puoi attraversare un continente in una frazione di nanosecondo, ma come scintillavano gli aerei Constellation… Quando atterravano in posti come Kansas City e Omaha per via delle intemperie o per rifare il pieno, sciamavano cowboy e contadini per vedere la gente stellare. Mascherate con occhiali da sole, le persone scendevano dagli Ufo di alluminio inossidabile e si guardavano attorno sperdute, confuse e forse anche impaurite dal vuoto che le circondava, dal pensiero che una volta anche loro abitavano questo vasto spazio senza niente. Ora si ritrovavano lì, costrette a tornare da forze oltre il loro controllo. La gente di campagna si comportava come se vedesse tutti i giorni cittadini del mondo dello spettacolo. Avrebbero scambiato posti con loro, se gli fosse stata data l’occasione. Ma in quei posti c’era anche chi sentiva amore per la terra, e per gli animali veri. Non partivano mai, né volevano.
Mickey sognava New York City. Ciò che ne sapeva l’aveva saputo origliando conversazioni al telefono tra esseri umani che producevano spettacolo e uomini d’affari: l’ufficio discute progetti con la fabbrica. Anche a quella lontananza, New York vibrava. Persino lo sporco e la violenza della metropoli sprizzavano energia. Scintille scorrevano per i fili del telefono come toponi nelle tubature delle fogne. Intuì la sua destinazione.
Mickey sentì disperdersi i suoi atomi, il suo calore. Attraversò l’etere privo di senso, tantomeno di sé stesso. Riemerse a Times Square. Tutto gli sembrò sbagliato. Si era aspettato teatrini porno, tossicodipendenti vaganti come zombie, lerce sale giochi, prostitute e musica funky a tutto volume. Ciò che vide era una versione ancora più finta di Disneyland, se ciò fosse possibile. Odiò la Nuova 42ma Strada, il suo rumore insincero e la sua luce senza significato, senz’anima.
Mickey, in preda alla disperazione, chiuse gli occhi. Sentì un ronzìo elettrico che filtrava attraverso una grata di ferro incastrato nel marciapiede. La nota bassa gli sembrò quella giusta. “Scendi” sembrava dire, “più in basso che puoi. Vai fino in fondo, non c’è altro modo”. Vi si tuffò.
Il nero sottoterra era umido e caldo. Puzzava da far perdere la testa. Venne colto dal flusso. Lo sciacquone lo fece volare. Provò estasi. Era di nuovo nel fluido nero. Era vivo, stavolta per davvero.
“Dio che corsa” squittì, quando sbucò alla luce in fondo al tunnel.
“Yeah, così dicono tutti i turisti”. Il topone che gli parlò stava prendendo il sole sotto un pontile pericolante sul canale Gowanus. “Ma non vediamo tanti turisti da queste parti, pupo. Sei uno di quei toponi alla ricerca delle proprie origini?”
Mickey si issò dall’acqua sporca. Altro che la piscina di Lana Turner dove aveva nuotato, sembrava solo ieri. Si spolverò, un gesto riflessivo rimasuglio del cinema muto, quando era solo un’altra giovane creatura in carriera. Non sapeva di essere solo un mezzo per tirare dollaroni, con aggiunta di propaganda nazista. Ripetere le vecchie mosse dava una sensazione di eterna gioventù riconquistata. Mickey ancheggiò verso il grosso topone nero spaparanzato a terra. Annusò l’aria.
“Oh, ma senti senti” disse.
Mickey fissò il panorama. Una chiatta della Nettezza Urbana, la Sea Cow, entrò nel malsano corso d’acqua e prese a vomitare una salsa marrone. Sgorgò liquame sul molo. Era tutto inesprimibilmente affascinante.
Il topone nero si mise dietro a Mickey e fece ciò che fanno i toponi per stabilire la dominanza. Mickey fu scosso dal trance. Tutto questo gli era nuovo. Una prima volta per la prima visita a New York. C’era dolore di un genere finora sconosciuto. Anche ciò era interessante. “Oh” disse. “Oh, yeah”.
Concluse le formalità rituali, non rimasero dubbi su chi era chi o cosa era cosa. Tali certezze sono sconosciute, a Hollywood. L’unica sicurezza nell’industria dello spettacolo è che ti vogliono fare il culo. La gente che fissa a occhi sgranati gli schermi luminosi nelle barocche sale al buio vuole qualcosa da te. Certo, ora comprano biglietti e battono le mani. Ma ciò che vogliono davvero è farti a pezzi, incorporarti, e poi vogliono vederti cadere, rovinare a terra, frantumarti in più pezzi possibile.
Mickey si sentiva coi piedi a terra. La terra gli sembrava affidabile. Poteva contare sulla terra per restare dov’era, per restare ciò che era. La terra era ferma e spietata, cosparsa di vetri rotti, sputacchi, gomme masticate, cartaccia, bucce di banana putrefatte, cicche di sigarette, preservativi usati e fuliggine. La spazzatura non scintillava. Il lerciume avrebbe accolto Mickey, a patto che lo avesse accettato e che vi si fosse adattato onestamente.
“Hai qualcosa di speciale, pupo” disse il grosso topone nero. “Direi che hai girato parecchio”.
“Puoi dirlo forte”. Mickey ripeté la battuta stanca, scritta da qualche sconosciuto, benché sapesse che non voleva più dire né fare cose del genere. “Era l’ultima volta” pensò, e disse, “Viaggiare è bello perché alla fine si torna a casa. E pensavo fosse impossibile”.
“Ti dirò cos’è possibile, pupo…”
“Sai cosa? Non chiamarmi pupo. Da come sono abituato a vivere, posso tirar fuori un mitra o una trappola per toponi quando voglio”.
“Va bene va bene… cazzo. Sai cos’è possibile, omo? Il pranzo è possibile, grazie al bastimento Sea Cow. L’ora del rancio attira le femmine, quindi sarà possibile creare tanti piccoli topi e toponi. Anzi, direi che è altamente probabile”.
“Ho chiuso con quelle storie lì” disse Mickey. “Ma tu fai pure. Magari guarderò”.
Lo scarico della Sea Cow odorava di culo di topone. Quel profumo pazzesco scacciò per sempre latenti ricordi di Minnie. Mickey seguì il nuovo amico verso la fonte che vomitava senza sosta il flusso unto e fetente. Si mosse a quattro zampe, senza guanti bianchi né scarpe bolidali. Aveva il muso prolungato. La sua coda glabra scomparve quando si affrettò per unirsi ai suoi simili nel buio.
Matthew Licht © 2018
La nota bassa gli sembrò quella giusta. “Scendi” sembrava dire, “più in basso che puoi. Vai fino in fondo, non c’è altro modo”. Vi si tuffò – esattamente quel che mi è capitato e/o ho fatto capitare per anni & anni. Sei cresciuto assai rispetto dall’ultima volta che ti ho ascoltato.
Sono stato ad Hollywood due o tre volte e sono rimasto affascinato dal mondo di quello spettacolo e, potendo, ci sarei rimasto. Oggi sono troppo in là con gli anni per tornarci e combattere. Comunque sia o fosse stato, il mondo “è bello” perché è vario…