Spoiler alert: chi è causa del suo mal pianga se stesso.
Dice: c’è un nesso tra il blues e il southern gothic? C’è il delta del Mississippi da un lato e Faulkner dall’altro – ma forse sono sullo stesso lato.
Questa è la prima traccia che mi ha lasciato per terra True Detective, prima ancora di aver visto l’opera per intero, e con questa traccia devo cominciare. Eppure la cosa è più complessa, si fa di più termini di riferimento, di più stanze.
True Detective è una serie antologica (scritta da Nic Pizzolatto, diretta da Cari Joji Fukunaga e prodotta da HBO) – il che vuole dire che ogni sua stagione racconta una storia a sé stante. Dunque bisogna dire: la prima stagione di True Detective – ma il fatto è che non voglio guardare True Detective unicamente dal punto di fuga del genere serie televisiva ma inquadrarla in un contesto più ampio.
La serie, infatti, fin dal primo episodio, mette davanti ben chiari gli assi, i termini di riferimento e i fili d’appartenenza. Tra questi c’è il fantastico, il southern gothic e l’iperrealismo della biologia evolutiva – allo stesso tempo. Ma andiamo per ordine.
Sono rare le opere la cui lettura/visione, negli ultimi tempi, mi ha coinvolto in modo tale da mettere a tacere la talpa ossessiva che di ogni finzione vuole analizzare le strutture e costruire modelli (non per volontà di talpa ma come uno studio, bottega per le mie proprie finzioni). Tra queste opere (letture e riletture), c’è sicuramente Los detectives salvajes di Roberto Bolaño, alcuni racconti di Borges dall’Aleph, in parte Il più grande artista del mondo dopo Adolf Hitler di Massimiliano Parente – e la prima stagione di True Detective.
La meraviglia della goduria.
Un lettore/spettatore è infatti due cose allo stesso tempo: un catalizzatore di impressioni, una cavia; e uno scrupoloso becchino (un occhio analitico che indaga l’opera post hoc, quando le pulsioni caotiche della vita organica, dell’opera nel pieno del suo svolgimento, sono venute meno. Quando le sue stesse emozioni di cavia hanno trovato un punto di equilibrio tale da permettere l’analisi). In questo senso, il mio godimento nel ruolo di cavia di True Detective è stato dei più intensi. Solo la logica spezzettata della serie televisiva ha permesso lo sviluppo di pensieri analitici sulla serie prima che questa finisse (l’ottavo e ultimo episodio della serie è stato trasmesso il 9 marzo 2014).
Martin Hart e Rustin Cohle sono investigatori della polizia statale dello stato della Louisiana, corpo omicidi – due uomini il cui temperamento, il carattere e la storia personale sono sud e nord, elettrone e protone. Due opposti complementari intorno a cui si crea un campo di tensione che li rende necessariamente legati l’uno all’altro. Questo campo di tensione è un omicidio ritualistico su cui si trovano a investigare – la serie si apre con le immagini di una donna inginocchiata, morta, legata mani e piedi, pugnalata e stuprata, coronata di corna di cervo, ai piedi di un albero secolare nei campi delta blues della Louisiana. Dove Marty vede il gesto di un pazzo, Rust vede l’opera impersonale di un poeta della morte – opera che implica una ripetizione seriale e ritualistica del gesto. Si cerca dunque il passato e il futuro. Si cercano i motivi allo stesso tempo che le altre vittime, le precedenti e quelle a venire.
Fin dall’inizio si dà a intendere che la visione di Rust (è corretto dire visione dati i danni cerebrali subiti da Rust durante la sua esperienza sotto copertura nel corpo narcotraffico), per quanto ostacolata da tutti nel corpo di polizia (Marty compreso) è l’unica ad avere senso. E tuttavia le intuizioni stesse di Rust (un uomo desolato, disabitato: uno dei rari pezzi di mobilio del suo appartamento è uno specchio circolare del diametro di qualche centimetro, fissato all’altezza degli occhi – per guardarsi guardare, si direbbe) diventano presto un oggetto ambiguo.
L’orizzonte fantastico.
Un omicidio ritualistico, i cui elementi da rappresentazione arcaica, crudele nel senso di Artaud, si legano ad altri più propriamente satanici – si delinea fin dall’inizio una prospettiva fantastica, in cui entrano in gioco direttamente Robert W. Chambers e il suo The King in Yellow, e H.P. Lovecraft. Così come entra in gioco l’unica serie televisiva a cui True Detective possa compararsi: Twin Peaks di David Lynch. C’è ben poco interesse nel soffermarsi sugli aspetti più evidenti di questo legame (le ragazze morte, il modo in cui vengono trovate, i loro stessi nomi: Dora e Laura; la presenza dell’ambiente circostante: i boschi e il delta del Mississippi). È più importante sottolineare le differenze. Mentre Twin Peaks affonda nell’orizzonte fantastico e, alla lettera, ci finisce dentro, in True Detective l’elemento fantastico resta tale, un limite, un orizzonte mitico in stretta relazione col motivo dell’omicida e col suo mondo. Ed è esattamente in questo punto che la serie si rivela nella sua unicità.
Se in questo punto, in questo mantenere i piedi ben saldi nelle radici della verosimiglianza realista pur flirtando con l’orizzonte fantastico, viene a convergere il peso (e l’appoggio) della tradizione blues e southern gothic, l’elemento più unico, quello che rende alla serie la sua grandezza, è invece la chiave della biologia evolutiva: quel corto circuito tra coscienza e codice genetico, tra volontà e programming biologico, tra scelta e necessità, il bisogno di illusione (qui è l’orizzonte fantastico ai suoi più alti estremi) e quello di lucidità disumana, oltreumana (qui l’iperrealismo scientifico, che è molto di più che la mera verosimiglianza realista). Questo scontro – necessario e ossessivo – ha a che vedere con quel concetto che in filosofia, ben prima del DNA e della genetica, ha preso il nome di principio di individuazione.
La faccia stessa del mistero.
Sono poche le opere che mantengono quanto promettono – sul punto più estremo di questa scala c’è il Castello di K., il quale proprio per il suo finale tronco, per la sua impossibilità storica di finale, mantiene la promessa più di tutti. Questa promessa riguarda un occulto, un mistero che, come tale, non si riesce a dire, non trova scioglimento né – soprattutto – definizione. True Detective gioca con questa prospettiva, ma a differenza di Twin Peaks, la elude, e per questo in qualche modo la supera.
Si può dire che True Detective fallisca qualcosa, per il fatto stesso di scadere in un finale, uno qualunque, in una spiegazione. Di fatto, sul finale, qualcosa fallisce: dei vari fili alcuni arrivano senza fiato, o con un fiato preso in prestito da certi cliché da actors studio; e quello che era un limite, un orizzonte, il mostro, si trasforma in un idolo morale, male assoluto – non un dettaglio estetico, ma un elemento di trama essenziale come il chiodo di Cechov. Eppure proprio nell’individuazione del finale viene fuori potenziato il filo migliore dell’opera: la lotta ossessiva tra coscienza (l’idolo, la luce) e programming (la realtà chimica e biologica dell’uomo come della pietra e della scrofa, l’unica realtà, l’unica cosa). È questo il motore di Rustin Cohle, la sua dinamo autoeccitante – e il modo in cui questa lotta viene messa in scena e conduce il finale e lo scioglimento resta più di ogni altro elemento la grandezza di quest’opera.
Ci sono vari motivi per cui godere di True Detective (come cavia e come talpa analitica): l’intreccio stordente e armonioso delle voci narranti, con un memorabile uso del “narratore inaffidabile” nell’ombelico della serie; la musica – sempre in secondo piano, moltiplicatore emotivo subordinato, eppure mai fuori posto; il lavoro attoriale e di produzione – si distaccano due lunghe sequenze, negli episodi 4 e 5, che dovrebbero semplicemente definirsi grande cinema. Tuttavia il filo determinante è quel corto circuito, poiché riesce a investire di luce nuova tutti gli altri elementi – anche quelli fantastici e grotteschi che fanno da orizzonte e limite alla serie: Carcosa e il Re Giallo, la stella nera, le corna di cervo, lo stupro e la maschera ritualistica, l’acchiappa-satana. Una luce speciale per il fatto che non divide le cose in finte e reali: l’allucinazione, l’idolo e l’evidenza fattuale sono lo stesso impulso nervoso. Questa figura, la forza con cui sbatte in faccia allo spettatore per la chiarezza e la maestria con cui è maneggiata, si pone molto oltre il mistero della trama e non lo scioglie – seppure alla fine la trama trovi un finale. Questa stessa figura diventa il mistero.
Per questo, per chiudere, mi godo (vi godo) la traduzione del monologo di Rust con cui termina il terzo episodio, The Locked Room:
“Questo voglio dire [indica foto di cadaveri] quando parlo di tempo e morte e niente. Ci sono idee più ampie in gioco: i debiti che noi stessi, come insieme, contraiamo per la nostra reciproca illusione.
14 ore consecutive a studiare cadaveri di morti uccisi – queste sono le cose a cui pensi […] Li guardi negli occhi, non importa se sono morti o ancora vivi, e che vedi? Alla fine hanno accolto la morte, l’hanno voluta. Non ne vedevano l’ora. È un sollievo inequivocabile. Perché avevano paura, e poi a un certo punto hanno visto – lo vedono per la prima volta in quel momento – quanto cazzo era facile lasciare la presa, abbandonarsi, scivolare via. E allora in quest’ultimo istante hanno visto che cos’erano: che io, tu, loro, tutto ‘sto teatro non è nient’altro che un calderone di volontà cieca e presunzione – e uno invece può semplicemente lasciare la presa, scivolare via.
E alla fine, quando non devi più lottare per restarci attaccato, quando hai lasciato la presa, a quel punto vedi che tutta la tua vita, l’amore, l’odio, la memoria, il dolore, era tutto la stessa cosa, lo stesso sogno, un sogno che hai fatto tu dentro una stanza chiusa a chiave, una scatola cranica – il sogno di essere una persona.”
E non sarà allora che sotto sotto, ancora di più che Lovecraft e Faulkner e la biologia evolutiva e il delta blues, qua dentro ci sia la mano dell’arrapante Schopenhauer?
Ben fatto! In attesa di ulteriori articoli.