Arbiter: Una considerazione proemiale sulla primissima scena – il campo dove si capirà che sono stati scaricati i rifiuti di Vinci, e che tornerà più avanti nella serie, come uno dei capi di accusa su cui si fonderanno le indagini. Differentemente dal proemio della prima serie (il confronto è comunque opportuno, la serialità stessa che lo richiede), che apriva invece in media res, in questo caso pare invece essere un momento poetico, quasi lirico – tutte quei fiocchi rossi al vento. La regia, la direzione poetica e d’invenzione, è quindi la prima e forse fondamentale chiave di lettura che, più dello script, si fa evidente da subito? Non a caso, nel corso della serie ci sono cambi di occhio e di prospettive di ancora nuove poetiche.

Vena: Già, il proemio. Pizzolatto lo comincia prima della scena.
Già nella sigla sappiamo, o almeno dice. Si sa che le strade sono un dedalo, quasi irrilevante nella direzione. Sono le autostrade che incidentalmente percorreranno i caratteri di questa commedia umana. Pizzol. sparge le bandierine di un campo contaminato e ancora prima un sentiero di foresta: attenti ai segni che lì soltanto il sole brucia. Qualcuno vi si addentra e muore. Poi arriva Chaddino.
Pel di Carota sta zitto, non canta il proemio ma è lì un altro segno: attenti che siamo grassi e bullizzati. C’è un proemio ma non c’è epica.
Gli indizi sono sparsi sin da subito perché l’indagine è irrilevante. Solo dall’alto si può provare a cercare un senso alla proficua wasteland poco abitata di Vinci: le lottizzazioni di terra che nessuno vuole, le uscite da corsie autostradali ormai rassicuranti quanto inutili.
È da subito una stagione più ricercata, non c’è nessun assassino da cercare, un demone fisico da eliminare per placare quelli personali installati dallo scrittore nei caratteri. Per portare la narrazione verso una linea più riconoscibile ecco un giovane e magro Velcoro, prima della cocaina, prima del bicchiere vuoto. C’è il flashback: I had to leave, My life behind, I dug some graves, You’ll never find.
Altre fosse, ecco Antigone in postlove.
Poi dopo i segni, la chiave: bisogna guardare tutto, dai personaggi agli scorrimenti veloci, con gli occhi di Dio.

Zucchi: Per un periodo – quando ho interrotto la serie al quinto episodio causa meritata vacanza e isolamento – la sigla mi pareva l’unica cosa degna.
La sigla: di fatto, verso la fine di questa si vede la fine vera e propria della serie, quel corridoio tra gli alberi dove Ray Velcoro, appena prima di morire, alza gli occhi e vede la madonna (come Rust nella prima stagione, ma senza la scusa delle allucinazioni dovute a specifiche e ben documentate lesioni cerebrali).
È una stagione più ricercata, Vena, nel senso che ci sono più fili e più vettori, eppure forse proprio là sta il problema. Così, dunque, il giro d’infamia: se qualcosa si fa chiaro nell’intro (intendo qui i fiocchi rossi al vento) è proprio l’affettazione, lo sforzo artificioso di chiudere il cerchio.
Poi l’intro non è che voglia per forza dire qualcosa – prendete quello di Fire walk with me! (butto Lynch dentro perché tornerà): un’intro bellissima per un film di merda.

Vena: Dopo aver confessato pigrizia, ecco la cattiva coscienza infelice. Ricomincio: c’è un sole depotenziato nella sigla, la ballata che suggerisce sta chiudendosi, ci sono i luoghi in cui finirà il percorso degli eroi fuffi perché è impossibile sciogliere il nodo dei casini propri. Noi siamo Chad, il sole è Dio chesoloseguardiamoconisuoiocchipossiamocapire (attenti: comprendere, non rassomigliargli come il Dio di Hannibal Lektor) ed ecco che Zucchi tira fuori, in sequenza: artificioso, per forza, cerchio, merda.
Pizzol offre a noi Chaddini la serratura dell’intreccio, ma per Zucchi è una struttura semplice.
Bitte, weiter gehen.

Arbiter: Dunque, la serratura. E poco oltre il voyerismo. Il suggerimento, Vena, è più che insinuante e già sento il fiato di Zucchi sul collo.
Il voyerismo, dicevo, è la serratura di un arrivismo politico-sessuale (e viceversa), e attraverso la sua perpetuazione si ha la pregnanza scenica delle prime quattro puntate. Lasciatemi, però, partire da un poco più lontano, prima di arrivare all’occhio, al cristallino che riflette la luce, che contribuisce alla creazione dell’immagine. Che cosa sta lontano dalla serie, la desidera, è ovviamente il pubblico, il primo voyeur. Che cosa si attende il pubblico, nella maggior parte dei casi è un replica di ciò che ha già visto, per cui si è già emozionato. Il pubblico vuole riconoscere, prima ancora di conoscere. L’atto puro del voyeur non è quindi una mera funzione oculare, ma cerebrale, una scossa elettrica immediata, cui non si pone freno. Ecco che nelle prime quattro puntate – struttura bilaterale 4 + 4 già ampiamente declinata nel primo True detective – Pizzolato e i suoi registi, ci hanno spiazzato, ci hanno tolto i punti di riferimento con cui un thriller (è questo che ci aspettavamo, ma è altro ciò a cui in fondo abbiamo assistito) ci avrebbe persuasi che anche questa volta si è trattato di un “capolavoro”. E forse è questo spiazzamento il debito più grande con Lynch (tanto acclamato, per cui quel fiato di Zucchi ora si fa bava di goduria, per la barba di Vena!)? Restringendo il campo, che cosa abbiamo? Corruzione, malaffare, prostituzione in rete, ebrei-russi che pontificano in America, il personaggio più comico che Pizzolato abbia immaginato, cioè il sindaco di Vinci, e poi gli eroi, la loro ricerca di qualcosa che fino alla puntata 4 non si sa che cos’è, ma è simboleggiato dal cadavere di un contabile, poca roba rispetto al mistero orgiastico, alla pedofilia della prima serie – insomma tutti gli ingredienti perché si giustifichi una serie più politica, meno incentrata sulla suscettibilità del pubblico stesso, sul voyeur par excellence, spostando tutto su un piano di rimandi meno evidenti, su cose non dette, penso a Black Mountain, la vicenda di Antigone nel bosco, il doppio raggiro ai danni di Velcoro e Semyon, tutte cose venute fuori dopo? Che Pizzolato abbia voluto creare un gioco meno one-man-show (Rust) e più spiazzante, nonostante i limiti che presenta a volte lo script?

Zucchi: Mi ero ripromesso di essere dolce, ma posso esserlo solo nella misura in cui l’arbiter elegantiae, il Mignola, me lo permette.
Per prima cosa, dissento dall’affermazione sulla struttura della prima stagione: ci sono i due blocchi, vero, ma il secondo comincia alla sesta puntata, non prima – la quinta, quella dove Reggie Ledoux (ecco, la dolcezza nel significante, mi consolo a dire «Reggie ? Reggie fuckin Ledoux did this?») è fatto fuori da Marty lo scandalizzato, fa parte del primo blocco.
La figura di Marty l’indignato, lo scandalizzato, mi riporta alla tua domanda: nella prima stagione il male è assoluto, così assoluto da permettere all’orizzonte fantastico di installarsi (Carcosa, il Re Giallo, l’arcano eccetera). Nella seconda il tiro si abbassa un tanto, è vero – eppure : si può dire che la natura del conflitto cambi ? Si sposta solo a un livello diverso, meno arcaico e sacrale, più prosaico.
Per quanto mi riguarda, la grandezza della prima stagione sta nel modo in cui, attraverso la figura di Rust, viene fuori una prospettiva antiumanistica in modo cristallino (vedi ad esempio il monologo che chiude la terza puntata). Nella seconda ci sono più piste, la complessità dei subplots aumenta (aumenta, tra l’altro, ben oltre la capacita complessiva offerta dal format). Cosa abbia voluto dire Pizzolatto con questo ? La mia ipotesi più infame è: niente. Io ci vedo un lavoro rifinito male, scritto di fretta, con un’urgenza di sorprendere che a volte finisce per rovinare anche il resto delle (tante) cose buone.
E qua torniamo allo spettatore, alle sue aspettative: il peso del successo della prima stagione sulla seconda è fortissimo (voglio tornare dopo su certe scelte stilistiche). Se Pizzolatto aveva in testa un cambio di passo, non è riuscito a effettuarlo. L’insieme delle piste, la loro accresciuta complessità (e i corti circuiti, i vuoti riempiti con dialoghi o monologhi da pura letteratura psicologista, da museo archeologico) avrebbero meritato un trattamento diverso (arbiter,  per tua intercessione rimando più avanti al chiodo di Cechov).
Di fatto, nonostante la prospettiva dello scandalo assoluto, ritualistico e misterico della prima stagione sia sostituito da un orizzonte più prosaico, più realista (mi scuso per la volgarità), la dimensione retorica rimane la stessa: “we are bad”, il bene e il male, il bene perde contro il male. Il risultato è inevitabilmente peggiore.
Eppure qua viene la mia prospettiva più dolce: nonostante tutto questo, la stagione mi ha preso, commosso e ispirato. Quali sono, allora, i suoi veri punti di forza? Una domanda per la barba di Vena.

Vena: Troppa carne e solo una parte è davvero al sangue.
Sulla struttura non mi pronuncio. È sopravvalutata troppo spesso. Sappiamo però che in questa stagione i topoi di Pizzolatto si sono mantenuti e ancora di più esplorati: il rapporto tra i giovani e i vecchi (dal poliziotto con mezza pensione al padre di Velcoro che si libera dei ricordi), metto un eccetera perché già svolti altrove.
Sapevamo anche che il killer si sarebbe palesato, qualcosa di classico non una firma autoriale. Il fotografo ha infatti delle battute di troppo, tutta quella scena sul set di certo non è stata inserita per fare uno screzio a Fukunaga.
Canamus paolo maiora. Questa stagione, al contrario della prima, ha una cosa che l’altra aveva se non in parte, se non già vista, se non ripetuta e appunto non ripetibile. True Detective 2 ha un soggetto, senza estremizzare dato che anche la prima stagione ne ha uno ma minimo.
È stato bello sentire Cioran e un Nietzsche popolare citato da uomini armati e white trash strafatti, bella la lettera di Ligotti. È stato bello vedere l’amato, da me amatissimo, Rust interrogare con il metodo Reid e vederlo interrogato nel rispetto dei diritti civili da i due detective di colore. Ottimo vedere la Louisiana nel suo destino appena futuribile ripresa al mare da un destino alla Ballard. Bello tutto ma si cresce.
Pizzol. è un autore giovane con un contratto da un milione di dollari l’anno. In questa stagione è diventato adulto e lo ha fatto rischiando. La visione e la visuale suggerita dal Mignola è tutta alla sfera interiore nei personaggi senza alcuna possibilità di essere considerati eroi. A questo giro Pizzol. chiede allo spettatore uno sforzo in più. Le metafore non sono suggerite in chiacchiere da automobile di servizio, sono nella risoluzione di un caso complesso, impossibile per i singoli e inestricabile per un casualmente assortito gruppo di detective, in cui ritroviamo anche Frank – lui che è uscito da una cantina piena di topi famelici, amato dai suoi uomini e temuto da tutti – consapevole del suo trauma, lotta per superarlo.
L’apparente assenza di un zucchiano “cambio di passo” è dovuta a una prospettiva a difficoltà aumentata, voluta da Pizzol. secondo me, non nella struttura della stagione o in un elemento mancante come l’aspetto mistico. È nell’assenza di un eroe[1] vero e proprio, un combattente contro il Buio. Nessuno dei true detective ha un’evoluzione tale per arrivare allo status di eroe, un carattere che permette allo spettatore di immedesimarsi e patteggiare per il Bene. La fantastica Antigone non svolta niente nell’indagine, non ferma i chicani a colpi di pistola e ha una doppelmoral ambigua in sé. Velcoro, a cui non si da un flashback per l’omicidio del falso stupratore, è un apparente padre vero che surroga sul figlio il suo fallimento morale e professionale. Non è il nuovo sceriffo in città e non lo sarebbe mai stato. Woodrugh ha il sospetto di non essere l’eroe di guerra che a volte si dice essere. Il suo stato di mercenario ed eroe di guerra è traballante come la sua sessualità. Muore come un fesso, dopo aver ucciso nemici in superiorità numerica e tutto questo per delle foto gay come se vivesse in Pakistan e non in California.
L’ambiguità dei personaggi non eroici richiede che lo spettatore accetti lo sbandamento indotto. Non c’è niente di facile nel plot come nei personaggi. I valori semplici sono nel leale e forse stupido scagnozzo di Frank. Nulla di facile e chiaro come un pessimismo cosmico. C’è complessità dell’umano invece, che è superiore quanto non semplificato. Migliore tutto, un passo davvero più avanzato. Questa è una stagione matura. Concordo con Zucchi sull’analisi ma per niente nel giudizio.

Semyon e i russi israeliani

Frank Semyon e il dono della sintesi

Arbiter: Fate il gioco poliziotto buono, poliziotto cattivo. Bravi! Eppure non c’è tempo per questi scherzi, qua bisogna parlare di visioni. Io ne ricordo tre: Antigone sotto effetto di Mdma (la sola in tutta l’orgia ad averne una, mentre le altre donne si fanno solo sbattere, e qui c’è forse qualcosa di freudiano che striscia); Frank Semyon nel deserto, che prima di morire rivede il padre, alcuni neri che lo ingiuriano che non ce la farà, la moglie; Velcoro vede il padre, ma il padre è ancora vivo, che lo incoraggia a non mollare, paternale americana, contrasto con Semyon, predica del buon pastore freudiano: tuo padre è la colpa di tutto. Che cosa accade, quindi? La visione riavvicina in tutti i casi al passato, pur non illuminandolo, non dicendoci niente di più di quanto abbiamo in fondo già capito, è psicologia, non è il mistero né ricerca dell’alterità, ma di una posizione più stabile dentro se stessi, lo zucchiano “dream about being a person” elevato a potenza e decaduto alla stessa velocità e potenza?

Vena: Il poliziotto buono/cattivo è nei Law & Order di dieci anni fa o nei serial polizieschi italiani contemporanei. Ovviamente senza Law & Order c’è il nulla.
Dunque, il momento di lucidità: non è il fine e la fine delle terapie di Freud ma è qualcosa che il genere ha usato. In fondo si tratta sempre di segni da ordinare e per un fine sanitario: curare la società dal trauma infertole dal delitto. È la figura, raccolti i pezzi, gli indizi. Ti propongo altri tre momenti di lucidità, la svolta, la chiave trovata. Mi allontano da TD2 e dallo spirito di Pizzol. per ritrovarlo.
Hank Schrader è al cesso, come tutti gli uomini normali afferra qualcosa da leggere. Ha bevuto, la steatosi epatica lo porta dove può svelare. La verità è sussurrata da Walt Whitman.
L’ispettore Finch, allontanatosi troppo dalla verità per stare con quella di regime, assume LSD e si reca a Larkhill.
È nei casini perché è uno dei Sei ed è nei casini perché il mondo è della Polizia. Jason Taverner ha bisogno di nulla se non di una via d’uscita. La droga sperimentale Kr-3 lo porta a sentire altre dimensioni, versioni del mondo. Forse, contro tutto l’apparato di Scorrete lacrime, disse il poliziotto, con la verità si eviterà un’esecuzione capitale.
Ora Pizzol. non ha fiducia nella ragione, in un qualunque processo logico deduttivo, nell’intuizione del genio. In questa stagione è ancora più pessimista, si è ancora al culmine della disperazione di Cioran, questa volta non spiattellato ma rielaborato: la lucidità o i suoi momenti indotti non servono.
Per ordine: Velcoro vede il padre come il perfetto poliziotto nell’uniforme perfetta non l’uomo di altra epoca, razzista, adesso vecchio e stolito. Rimane a terra a sognare la luce blu, questa si lynchiana, perché è sbronzo non per la scarica di rubber bullett. Si, è freudiano ma banale. L’uniforme impeccabile è quella che non si è meritata.
Antigone sta in botta, strano non sia più resiliente all’Mdma, ha il profilo di ex frequentatrice di rave e in ogni caso beve forte. Vede il volto dell’uomo che la molestò e peggio da bambina. Eppure lei è diventata detective e non si è suicidata. La lucidità monca le serve solo per il sesso vanilla con Velcoro.
Frank morente, nessuno dei ricordi del passato e dei neurotrasmettitori dell’animale morente gli dicono: “Stronzo, tutto sto casino per i soldi? Ti abbiamo fottuto alla fine, fantasmi traumatizzanti. Il topo ti ha mangiato in cantina.”
Poi Woodrugh che non merita nessun flashback, nessuna luce. Vive nell’ombra e c’è solo nebbia di guerra fino a ritrovarsi a letto con l’assassino e il traditore degli amici.
Niente che riguardi l’indagine, nessuna intuizione per risolvere il caso e salvarsi la pelle e la reputazione.
Ed ecco la firma, adesso più fine di Pizzol.: il dream to be a character. I personaggi, non l’intreccio.
Nei segni svolti a diverso livello, nella fattanza in generale e nei traumi in particolare non c’è spazio per la verità, se non monca e irrilevante per il mondo. Le alterità sono colpi di 5,56 mm Nato e coltelli da tamarro alla schiena. Guai, dice Pizzol., a chi non esce dal meccanismo.

Zucchi: Che finezza, Pizzolatto: le visioni dei detective  sono monche, irrilevanti per l’indagine, però poi i detective si trovano il cadavere di Caspere bello impacchettato (absit iniuria verbo) e pronto.
Bene: Vena in pratica stai dicendo che, prediligendo i personaggi sull’intreccio, Pizzolatto è così fine da aver sbagliato genere: voleva scrivere un romanzo dell’800 e si è trovato, per caso, a fare una serie.
Non c’è niente di lynchiano, inoltre, nonostante i rimandi continui (quando infine si vede il volto, nel bosco, dell’uomo che rapì Antigone prima ho pensato “sembra il padre” e poi “Bob cazzo!”). Ecco qui c’è un’altra chiave che prima ho impropriamente chiamato “il chiodo di Cechov”: la serie è imbottita di citazioni, nessuna delle quali vale come indizio – è una trappola. Pizzolatto qui gioca con le aspettative dello spettatore, e fa bene. Questo, per quanto mi riguarda, è finezza, non la retromarcia “i personaggi più che l’intreccio”. Anche perché l’intreccio, si diceva sopra, è di grande complessità.
Mi sorprende, poi, in questo deserto cioraniano, come nessuno abbia messo in ballo forse l’unico motore psicologico di questa stagione: la vendetta. Il che mi porta al maestro (della vendetta): in un’intervista recente, Tarantino dice: “And season two looks awful. Just the trailer — all these handsome actors trying to not be handsome and walking around looking like the weight of the world is on their shoulders. It’s so serious, and they’re so tortured, trying to look miserable with their mustaches and grungy clothes”. Com’è, allora? Io dico che invece  nel depistaggio volontario che Pizzolatto opera (nella trama e nella disposizione delle esche metatestuali che spingono da un lato e portano dall’altro) si liberano forti dosi di ironia (altro che mdma).Ecco allora che uno dei momenti migliori della serie è uno dei pochi dialoghi non psicologici: quel ménage à trois (la disposizione è quella dei divanetti a tre della reggia di Versailles) alla stazione tra Velcoro, il capo della polizia e l’omicida di Caspere nell’ottava puntata, in cui tutti i nodi vengono a galla con l’impeto e la necessità (quella stronza sfuggente), il trasporto, che un finale DEVE avere.
Mai, mai mi sarei sognato di dire una cosa del genere, ma la dico: una bella cura alla Gordon Lish, un bel taglio della paccottiglia psicologica (tutti quei momenti che a voi piacciono così tanto perché sembrano indicare un superamento rispetto alla prima stagione) avrebbe fatto benissimo. Certo, dici, e poi come lo riempi quel tempo? Questa è una serie, non un romanzo. Appunto, dico, usurpando l’Arbitro delle sue scelte questionarie: questo dovrebbe essere l’argomento della prossima domanda.

Antigone e Velcoro

Antigone e Ray si amano ma non lo sanno

Arbiter: In quanto arbiter elegantiae, premetto: a CrapulaClub, non essendo questo luogo propriamente una democrazia, è concesso l’usurpazione, il ladrocinio, la citazione in giudizio, ossia tutte quelle cose che in letteratura per saecula sono passate sotto il nome di imitazione.
Vengo alla domanda. Dagli appunti di Vena, emerge chiara la questione della fertilità. Pare, infatti, che tutta la serie – come un romanzo, se fosse un romanzo, ma di quale epoca e quale stile? – sia imperniata sull’assenza o l’abbondanza di fertilità in luoghi e personaggi, anzitutto. L’intreccio, al di là dei suoi risvolti narratologici, è in fondo la buona o cattiva riuscita di uno schizzo, di seme o di acqua di scarico. Dunque, è possibile vedere in questo sottotesto, come piace dire a Vena, la chiave di volta della serie? Voglio dire: che tutto si fondi su un sottile e non pronunciato nichilismo di specie?

Zucchi: Grazie arbiter. Col suo permesso voglio riferire una frase di Javier Aparicio, critico letterario spagnolo: “Ditemi allora, qual è l’influenza di Borges su Quevedo?”
La seconda stagione viene dopo la prima (che ovvietà! si dice) e ne raccoglie i frutti. Se nella prima la dimensione retorica (il nichilismo superfico di Rust) è sparato a tutto volume, qui invece diventa elemento ambientale, tessuto costitutivo, immanenza. Però, proprio dove si spiana il campo per una cosa diversa, una possibilità narrativa diversa, tornano invece le caratterizzazioni psicologiche, i dialoghi in cui uno dei due è sempre funzione (la moglie di Frank, quella donna funzione che però, nel quadro della fertilità, non funziona), i traumi dei personaggi, la disamina dei loro conflitti e il giudizio morale ad nauseam.  Restano cioè le basi strutturali della prima, senza la forza trainante, la bellezza di quest’ultima. (Uno squallore realistico?)
Qual è invece l’influenza della seconda stagione sulla prima? Per quanto mi riguarda, quegli elementi che avevo qualificato come accidentali nell’analisi della prima stagione, si sono confermati invece strutturali nella seconda (lo dicevo sopra: “we are bad”, il bene e il male, il bene perde contro il male).
C’è però una via che rimane inesplorata in questa stagione, una possibilità – un buco riempito (per fretta? Per incapacità? Per pressione? Poco importa) con contenuti superflui (la stessa visione di Frank alla fine). Si può citare ancora Twin Peaks come esempio di questa possibilità, della possibilità di un’altra via, eppure ci vuole cautela: la stessa serie di Lynch rappresenta un incompiuto sul più bello (quella seconda stagione devastata dai litigi coi produttori – staremo a vedere cosa viene fuori dalla terza stagione in programma per il 2016).Al netto di tutto questo resta qualcosa – uno spiraglio e una prospettiva. Le cose migliori della seconda stagione sono quelle più taciute, meno sbandierate, più sintetiche. L’ambiente che Pizzolatto ha costruito, questo nichilismo divenuto carattere immanente, richiede la frantumazione dei personaggi, della loro centralità. Se nella prima Rust è tutto, nella seconda invece s’intravede qualcos’altro – un vuoto intorno a loro che però Pizzolatto ha voluto per forza riempire con gli ingredienti sbagliati (quando forse invece di riempire doveva giocare a sottrarre, e torniamo alla questione della forma o genere che l’arbiter si ostina a non sottoporre.)
Dimmi una cosa Vena. Dimmi una narrazione in cui il tessuto, l’ambiente parla tutto la stessa lingua, è più vivo dei personaggi stessi, è lui stesso personaggio. Pizzolatto, leggi Kafka, cazzo!

Vena: la moda di citare/evocare Kafka ovunque finirà a breve. Durerà, come tante coazioni, ancora poco e poi forse ritorna, in un momento di stanca. Rispondo prima di rispondere: Libra, Don DeLillo.
Il topos della potenza mancata come l’infertilità, presunta o manifesta, è ripetuto da Pizzol., ci tiene proprio. Frank non vuole un altro bambino in una cantina, tutto deve essere perfetto per avere un figlio. Uguale che sia la moglie a non poterne avere, donna che, per arrivare lì ed essere una quasi gaudente sopravvissuta, si è giocata la possibilità di concepire in tempi che non erano buoni. Una coppia perfetta, Frank e Jordan. Sappiamo che nel Venezuela che non è El Rey anche Jordan avrà un figlio, per quanto mediato.
Velcoro ha i suoi problemi, solo all’ultimo scopriamo che è un cecchino one shot, one kill. È pregiato che sia interessato al figlio, un figlio. L’unica volontà palese è quella di essere padre, di definire Chaddino suo figlio. Fallisce in tutto Velcoro, viene premiato con una vera vera paternità.
Persino Woodrugh regala al pianeta Terra della prole.
Concludiamo con Antigone e la one night stand mentre tutto il mondo li vuole morti.
Non c’è infertilità che è tema da fine impero, c’è esplosione di nascite. La spinta alla riproduzione è fortissima, torna casuale, poco contemporanea. Supera persino le pulsioni di Woodrugh e la pillola della fidanzata. Che potenza della specie messa a confronto con l’impotenza tattica e investigativa dei protagonisti. Dicevo che Pizzol. ci tiene o non avrebbe messo in scena sale maternità prossime e futuribili, solo che sembra confuso.
Il nichilismo è solo apparente, c’è un’incapacità di incidere, nell’indagine come nelle vite. Ci provano tutti, provarci conferma una qualunque tesi nichilista solo ex post. Il problema è che combattono i protagonisti, male però.
Ritengo questa stagione migliore della precedente, solo che non c’entra l’obiettivo avendone troppi e confusi. Un esempio è appunto la questione della fertilità e della paternità. Sbanda, come la possibilità dell’elemento esoterico-filosofico appena accennato e poi ritirato, il motore della vendetta che è sempre monco (Velcoro sbaglia a vendicarsi, Leonard pianifica tutto per anni e poi finisce per fare lo sbandato in stazione), questi messicani che sono appena lynchiani, un po’ fantasmi e abbastanza tamarri, piscioni di un culto della Morte che viene appena indicato. Troppo carica la stagione, troppo è lasciato andare.

Arbiter:  Sottrazione e non detto contro tagli e brusca interruzione. Due americani si riflettono in questa seconda serie, come due anche nella prima Faulkner e Borroughs (condividendo il binomio Nietzsche-Cioran, nei termini di cui abbiamo già discusso). Per la precisione i due di questa serie potrebbero essere: Carver o il-suo-editore, in particolare l’ho intravisto nelle storie a due, in cui affiorano particolari e insieme si interrompono, sono tagliati fuori o sospesi; e DeLillo di “Libra” dove l’intrigo politico (“we are bad” ha detto Zucchi – e noi chi siamo?) è lì bello e spalmato, ma subisce proprio sul finale il fascino della sottrazione dell’argomentazione principale. Siamo quindi di fronte a una prova di tecnica diversa? Di stile narrativo più asciutto e in cui l’ironia, quella cosa che fa porre questioni, non viene fuori come dovrebbe (penso irrimediabilmente al finale di Cosmopolis)? Ad esempio la scena di Velcoro e Semyon seduti a tavolino, pistole sotto il tavolo, come in un film di gangster anni ’50: serierà o ironia o, tertium datur, errore?. Che la forma, quindi, non riesca a trattenere il contenuto? Insomma, che il significante (la serie) stia troppo stretta per il significato (vedi risposta di Vena poco sopra)?

Vena: Strana questa domanda in finale.
Il medium “serie” sulla botta di commentatori all’uscita di House of Cards, Fargo, True Detective (S01) e the Knick ha fatto gridare a un superamento del romanzo. Questo insomma è un tema quasi nuovo rispetto all’eterna annunciata morte del romanzo. Gli strumenti dell’ermeneutica prestati alla critica letteraria, o incidentalmente televisiva, non mi possono ben riguardare. Dico che certamente la serie tv HoC è meglio della trilogia in libro, semplicemente scritta meglio. The Knick poi è quello che grandi romanzi storici contemporanei non sono riusciti a centrare, ecco, mostrare. Fargo è la perfezione in lettere e scena. Questo però sfiora appena la domanda posta da Mignola, mi serviva un contatto con tatto prima.
Td2 sembra stretta per il significato, o il sottotesto, o la misteriosa idea creativa (o fondante) della stagione? Non lo so. Vado, a casaccio.
Le pistole sotto il tavolo, di una cucina, in un quartiere suburbano di case tutte uguali e a prezzo standard, più che anni ’50 sono western, una scena che Tarantino prende da quel genere infatti.
In Libra tutti i personaggi sono dispersi nella Storia americana che vivono, Oswald è il prodotto delle manovre e della storia stessa. Il messaggio in quel libro è chiaro e immediato. Quello di Td2, azzardando l’arco comparativo, è polverizzato in una miriade di temi e accenni e non per una scelta ma per una deficienza nella scrittura. Pizzol manca il bersaglio ma questo era a una distanza/difficoltà molto più ampia rispetto a TD1. L’assenza di ironia, della battuta significante che caratterizza un personaggio (il ditino di Martin Hart) è una pecca dell’esecuzione nel contenuto della stagione.
Pizzol è stato un appena decente romanziere in Galveston, ecco all’analisi preferisco un volo eziologico, è stato osannato e insieme molto attaccato e criticato per essersi “ispirato” troppo nella costruzione dei dialoghi importanti in TD1. La stagione appena finita è tutta di suo pugno, dichiara di non avere un team di scrittura. Questa fa parte della sua gloria come showrunner e autore, rimane quella da showrunner ma in questa stagione l’assenza, Pizzol insiste molto sullo scrivere tutto da solo, di un team di scrittura secondo me, secondo i moltissimi delusi che esagerano, si è sentita.
Il medium serie è diverso sì, è un lavoro creativo diverso dallo scrittore di fronte alla pagina bianca.

Zucchi: “Arbitro Cornuto!”
Esiste già la critica delle serie tv come genere saggistico. Penso a Teleshakespeare di Carrion. Esiste cioè un modo di scrivere e realizzare una serie, un canone. Fargo ad esempio è una serie dai tempi impeccabili (pioggia di pesci a parte, ma quella non è una questione di tempi). TD2 non lo è. L’impressione è quella di una grande complessità, da un lato compressa a forza nel modulo 8x60minuti, dall’altro soggetta all’ortodossia degli “archi narrativi” (questo dover tornare per forza sui conflitti di tutti, conflitti la cui natura è detta meglio in una battuta en passant che non in un interminabile dialogo “rivelatore”).
Ecco forse qui si apre la questione. Quale delle serie di cui abbiamo discusso è realmente “polifonica”? Game of Thrones lo è – e proprio quest’elemento l’ha appesantita nelle ultime tre stagioni. Cosa salva Game of Thrones? Una trama d’acciaio, una definizione netta dei conflitti in gioco: la dispersione della tensione non esiste se non come diversione temporanea, alleggerimento. Tutti sanno in ogni momento quali sono i cardini. Al contrario, è molto difficile giocare la carta dell’ellissi e allo stesso tempo togliere una figura centripeta come Rust dal palco, sostituendolo con una miriade di agenti. Non è impossibile, ma ci vuole un calcolo di precisione molto più minuzioso.

 


[1] Riporto in calce, una nota che A. Zucchi mi ha riferito in una telefonata: “Non è l’eroe propriamente a mancare, ma una sua specifica declinazione. Ciò che manca nella seconda stagione è quel tipo di detective filosofico e filologico, “l’analista” dei noir di Poe – il detective totale della progenie di Auguste Dupin, progenie di cui Rustin Cohle partecipa per diritto di sangue”.