L’incessante frastuono del suo cuore che le rimbomba nel petto. Rintocchi a intervalli regolari, sempre più veloci, ma senza fretta. In quei battiti si riversano i suoi ultimi pensieri. Come se una flebo li facesse cadere uno ad uno, lentamente. Il suo respiro si accorcia, le manca l’aria, non ci riesce. Qualcosa le blocca la bocca, gliela tiene chiusa, forse è nastro adesivo. Le labbra le prudono, se solo potesse strapparselo via, se solo potesse muoversi… Ispira ed espira freneticamente dal naso, qualcosa le sta addosso, le schiaccia i polmoni. È attorno al suo collo, duro e freddo. Le si attorciglia intorno, la immobilizza sulla sedia dove cerca di respirare di più. Ma non ci riesce.
È tutto buio. Potrebbe essere altrove, potrebbe essere sempre rimasta lì. I suoi pensieri si confondono, ci sono delle domande, affiorano dei ricordi. Fuochi d’artificio di anni fa, un grande spettacolo nel cielo. Insieme a lui. Quando erano felici.
Non ho paura di morire, no. Qualunque momento andrà bene, non m’importa.
I suoi occhi si fanno umidi, sta piangendo. La pelle del suo viso è appiccicaticcia, forse di sudore, forse di sangue. Che stupida cosa da dire, no? Adesso lo sa che è una cosa stupida, sì. Adesso sa di aver paura di morire.
Perché dovrei aver paura di morire? Non ce n’è ragione, prima o poi dobbiamo andare.
Inghiottita nel buio di quella stanza fredda. C’è un ticchettio soffuso, si fa sempre più nitido. Come un orologio, ma non è un orologio. Lo sa che cos’è, sì. Segna il tempo, dice come ma non quanto. Quanto tempo? Pensava che non le sarebbe mai importato. Il come è più interessante, il come dice tutto della musica. Perché lo sente adesso? Cosa significa? È un tic-tac lento. Largo. Adagio. Diventa più veloce, sì, rincorre i battiti del suo cuore, prima o poi li raggiungerà. Il cuore che batte, metronomo di un corpo fatto di sangue. Non dice quanto tempo, dice come. E adesso come non le interessa più. Vuole sapere quanto tempo, quanto ancora resterà seduta su questa sedia con una catena che la inchioda su se stessa, con le labbra appiccicate tra di loro. Se solo potesse parlare. Lo sa che sarebbe un problema. Potrebbe rovinare tutto, sì. E nei suoi ricordi di fuochi d’artificio, quel grande spettacolo nel cielo, emerge un’ultima preghiera. Parlami.
È in quella stanza buia insieme a lei. Controlla il tempo, lo lascia accelerare e decelerare come vuole. È lui a controllare il gioco, è sempre stato lui. Le fanno male i polsi e le caviglie, deve averglieli legati ben stretti. Forse no, non è paura di morire.
Non ho mai detto di avere paura di morire.
È paura di qualcos’altro, di tutto quell’altro che l’ha sempre circondata e che lei non aveva mai visto. La paura di scoprire che, alla fine, tutto è andato storto. E che la fine arriva lì, incatenata su una sedia, con la fronte sporca di sangue che non può vedere.
«Anni, assolutamente.»
La sua voce è stridula. Come se venisse da lontano, da una fessura tagliente. Come vetro. Come specchi?
«Sono pazzo da anni, un sacco di fottutissimi anni. Lì sull’orlo.»
Parlami, ti prego. Non smettere.
«Mi sono fatto il culo per una vita. E poi sono impazzito.»
Si alza in piedi. Il ticchettio diventa più forte, diventa assordante. Si mescola al battito del suo cuore, è come se nel petto avesse un macchinario rumoroso sul punto di esplodere. Scoppierà, prima o poi. Non può battere così. Non si può vivere con un cuore così.
«O forse no. Forse sono sempre stato pazzo, lo so che sono pazzo. Ma lo siamo tutti.»
Sta camminando. Si sta muovendo verso di lei, il tempo accelera. Presto. Agitato. Prestissimo. Non lo vede, ma riesce a sentire il suo odore. Quell’odore. Bisbiglia, sussurra qualcosa.
Se senti questo bisbiglio, stai per morire.
Poi la sua voce si insinua nel suo orecchio caldo e sudato. «È difficile spiegare perché sei pazzo. Anche se non lo sei.»
Ride. Non è servito a nulla parlare. Non parla di niente, c’è solo il suo cuore che le fracassa il petto, quella catena che le stringe la carne. Il ticchettio del tempo. Il suo tempo, un tempo che sta scadendo. Solo adesso capisce l’importanza del quanto. Il come è nel quanto. E lei non ha più tempo. Avrebbe ancora qualcosa da dire.
Parlami! Parlami!
Un rumore lontano, fuori dalla finestra. Sembra un elicottero. Deve essere molto divertente perché lui ride ancora. Ancora.
C’è la sua risata, le soffoca il cuore che pulsa. Tic-tac. Respira, respira quest’aria. Non ci riesce, no. E allora urla. Urla fuori la tua anima, urla il tuo ultimo grido.
E grida.
Quando salgo sul treno sono le 22:24. È il 7 marzo 2015, è sabato ed è tutto da rifare. Ho raggiunto la stazione con pochi minuti di anticipo, giusto il tempo per accendermi una sigaretta qui di fronte ai binari su cui dorme il mio treno grosso e rosso; tiro due boccate voraci e soffio via il fumo. So che il treno partirà alle 22:30, potrei anche cercare di finirmela, questa maledetta sigaretta. Poi per due ore abbondanti non potrò fumare, aspetterò l’arrivo alla stazione di Sunk City – intorno all’una – e lì potrò sgranchirmi un po’ le gambe perché il treno si fermerà per mezzora. Quando salgo sul treno sono le 22:24 e il mondo alle mie spalle mi urla addosso.
Non so se le luci dentro al treno mi fanno star ancora più male di quei lugubri lampioni sotto i quali rantolavano le panchine che stavano ferme di fronte ai binari. Non mi piacciono le luci bianche, non mi sono mai piaciute. Sanno di ospedale? No, in ospedale non ci sono mai stato, potrei dire questa stronzata ma sarebbe solo per vedere chi mi sta davanti annuire e darmi un segno di affermazione. Le luci bianche non mi piacciono perché mi ricordano che ci sono giorni così bui che solo le luci bianche ti fanno vedere qualcosa.
Non mi sorprendo molto quando mi accorgo che non c’è nessuno insieme a me su questo treno. Questa macchina rumorosa non si fermerà a lungo, chi vuole viaggiare a quest’ora? Alzo gli occhi verso una luce bianca, lo so che cosa mi sta dicendo. Perché io viaggio a quest’ora?
È tutta colpa tua, Danny boy. Se fai tanto la puttanella di prima classe e ti lamenti della nostra compagnia, perché viaggi a quest’ora!?
Vorrei rispondere, ma la luce non capirebbe.
Dove mi siedo? Cazzo, un treno quasi vuoto e ogni volta la stessa storia: non c’è posto. Se mi sedessi vicino al vecchio? Che poi, chi ha detto che è vecchio? Vedo solo il cappello verde, sì, ci sono dei capelli bianchicci ma non deve essere necessariamente vecchio. E magari poi pensa che sono un altro criminale immigrato, un rumeno ladro che non aspetta altro che il momento giusto per accopparlo, sfilargli il portafogli dalla tasca del culo e scendere alla prima stazione. I rumeni fanno così, anche se non ricordo bene dove l’ho imparato.
Procediamo con ordine. Mi siedo qui, dall’altro lato, terza fila a destra. Vicino al finestrino, che poi non è un finestrino ma uno schermo vitreo gigante che riporta il mio sguardo sulle panchine che sonnecchiano sotto gli orologi ingialliti sulla piattaforma. Forse è meglio così, dall’altra parte vedrei solo le rotaie parallele a quelle su cui sto io, una dopo l’altra, tutte inghiottite dalla notte senza vento, fino a trasformarsi in un ammasso indistinto di abbandono e industrializzazione. E mentre mi siedo, non posso fare a meno di chiedermi, forse per l’ultima volta, se ne vale la pena. Se alla fine, poi, ci sarà il sole di nuovo e le luci bianche non avranno più voce in capitolo.
Temo proprio che sarà un lungo viaggio se non la pianti di rompere. Come se avessimo avuto scelta di essere qui su questo treno, come se avessimo potuto prevedere che questa notte ci saremmo incontrati! Datti una calmata, Danny boy, poggia il tuo culo sulla poltrona che hai selezionato e vedi di darci un taglio!
Danny boy, sì. La mamma mi chiamava così. Danny boy, che cosa hai fatto!? Monello, Danny boy! Oh, Danny boy, sono così fiera di te! Per la mamma sono sempre stato Danny boy, da quando pisciavo a letto fino al giorno in cui Danny boy furono le ultime parole che poté pronunciare. Ma forse non è il momento di pensare alla mamma. C’è ancora molta strada da fare, avrò sicuramente tempo per pensare anche a lei.
E adesso, con oltre dieci minuti di ritardo, il treno inizia a muoversi senza preavviso. Così dolcemente che, se non fossi rimasto a guardare le panchine nude, non me ne sarei accorto. Ma poi il mondo ha iniziato a muoversi, lì fuori, e tutto in questo treno è rimasto immobile. Il mio compagno di viaggio non sembra essere molto turbato né dalla partenza né dal ritardo. Io? Io sì, sono turbato perché solo adesso mi rendo conto di essere su questo treno, e viaggerò fino all’una per arrivare a Sunk City, e poi ripartiremo. Perché questo treno non ha fermate, o forse nessuna visibile dal punto in cui mi trovo adesso.
Forse non c’è nessuno, su questo treno…
E sai come si chiama questo gioco, Danny boy?
Riapro gli occhi e il mio primo pensiero è una certezza: devo aver dormito alcuni secoli. È sorprendente come ci si possa addormentare facilmente anche in quelle occasioni in cui giureresti che è impossibile dormire. Ho dormito, mi sembra evidente. Sento un sapore orribile sulla lingua, una miscela virtuale di metalli pesanti e sterco di asino. Infilo la mano in tasca e tiro fuori il mio grande cellulare con cui si può fare quasi di tutto. 00:52. Davvero sono stato via per così tanto? Direi proprio di sì, specialmente stando al dolore martellante al collo, rimasto piegato in una posizione scomoda per troppi minuti. Forse è stato questo dolore a riportarmi qui su questo treno.
Il pensiero che tra non molto sarò a Sunk City mi conforta. Potrò uscire fuori da questa gabbia meccanica e annerirmi i polmoni un altro po’, mi garantirò un paio d’ore di tranquillità. Perché adesso è sicuro, non dormirò più durante questo viaggio: dopo che ti spari oltre due ore di sonno, non hai speranza di riaddormentarti.
Alzo la testa e do un’occhiata tutt’intorno. Una sensazione amara mi stringe la gola quando mi rendo conto che anche il mio migliore amico di sempre, quello col cappello verde, se n’è andato. Non credevo ci fossero fermate, ma posso essermi sbagliato. Il pensiero di quest’uomo solo che abbandona il treno per rituffarsi in una stazione buia e fredda, senza nessuno lì fuori ad aspettarlo, ad accoglierlo, a ricordargli che non è solo nel mondo… E io cosa facevo nel frattempo? Magari russavo rumorosamente, così, come se non ci fosse alcun problema. Cosa avrà pensato? E perché l’idea di essere da solo su questo treno in corsa mi sembra così triste?
Sì, è sveglio. Lo sento pensare di nuovo, pensa cose strane.
Fuori dal finestrone non si vede niente. Forse è un’idea assurda, ma sembra proprio che non ci sia niente, che siamo fermi da qualche parte. Magari siamo già in sosta a Sunk City, ma non c’è nessuna stazione lì fuori. No, guardo meglio: mi sbagliavo, ci stiamo muovendo. Be’, in ogni caso non possiamo essere così lontani. Cosa dice il mio potente telefono? 01:12. Un po’ di ritardo, ma è fisiologico: siamo partiti più tardi.
Siamo?
Sono partito dieci minuti più tardi, ecco. Ormai è questione di poco. Che mi importa di arrivare a Sunk City? No, nulla, è solo per poter fumare un’altra sigaretta. Da quanti anni fumo? Gesù, mi sembra una vita intera, non ricordo più cosa si prova a non doversi riempire i polmoni di fumo ogni due ore. Fammi pensare, quando ho cominciato avevo quattordici anni. No, tredici. Quindi doveva essere il 2004. Sì, agosto 2004, perché poi avrei fatto quattordici anni a dicembre. Porca puttana, quasi undici anni di fumo! E a smettere non ci ho mai neanche provato, mi dispiace. Mi piace fumare, è una delle poche cose buone della vita, non ho alcuna intenzione di smettere. Certo, un giorno tossirò così male da avere dolori lancinanti al petto, tossirò per molti giorni, finalmente andrò dal dottore. Una radiografia, le lastre mostreranno la famigerata macchietta. Ah, potrebbe essere qualsiasi cosa. Potrebbe essere quel fottutissimo camion in attesa che io attraversi la strada distrattamente. Ma per il momento va benissimo così, con le mie sigarette. Certo, se mai questo treno si fermerà per permettermi di fumare.
Non so se sia una buona idea, ma penso che potrei farmi volentieri una pisciata. Mi brucia il pisello, sento proprio il bisogno di far uscir fuori un po’ di quell’immondizia filtrata che tengo dentro. Ci sarà un bagno in questo treno. Sì che c’è, è proprio lì di fronte al posto che prima occupava il mio vecchio amico. Un posto strategico.
Sì, ma se il treno si ferma proprio mentre la stai facendo?
E allora? Forse devo pisciarmi addosso?
Lo so che non ti piacciono le luci bianche, ma perché non provi ad ascoltarmi? Il treno è in ritardo, magari a Sunk City farà una fermata di pochissimi minuti – uno o due – così recupera tempo, e intanto tu sei nel cesso puzzolente di questo vagone a scrollartelo, riapri la porta e – ciuf! –, sei partito di nuovo. No, non puoi fumare nella toilette.
Il vero problema delle luci bianche non è che sono brutte e tristi. Non solo, almeno. La luce bianca ti farà sempre vedere quali terribili conseguenze le tue azioni possono avere, tirano fuori da ogni angolo del tuo mondo l’intrinseca solitudine e insoddisfazione a cui siamo condannati. E capisco che la verità è questa, la verità è brutta, perché la verità è che torno a sedermi ancora una volta al mio posto perché, adesso che sono l’ultimo passeggero di questo treno, so che non ci sono altri posti oltre al mio. In fin dei conti posso tenermela un’altra mezzoretta, ormai il mio telefono mi dice 01:27, e con ventisette minuti di ritardo non credo proprio che il treno si fermerà a lungo.
Non sono neanche sicuro che si fermerà.
E mentre torno a sedermi, ripenso alle ore che hanno preceduto il mio ingresso su questo treno. Lo so che sto scappando da questa giornata; volendo esagerare, posso dire che sto scappando da tutta la mia vita, e adesso lo sto facendo nel modo migliore, senza alcun bagaglio, con solo il mio telefono, il portafogli coi documenti che mi servono e il carica-batterie per il mio aggeggio tecnologico, perché già mi dice 22%, e non è un bel numero. Appena arriverà a 15% comincerà a emettere una lucina rossa e mi chiederà di ricaricarlo. Sì, lo so che non posso ricaricare la batteria sul treno, ma posso aspettare. Tanto non aspetto nessuna chiamata, specialmente a quest’ora.
Allora potresti spegnerlo.
Potrei spegnerlo. Ma bisogna considerare che ad ogni accensione il mio telefono è come se resuscitasse, spreca un sacco di energia. Per adesso va bene così, non aspetto nessuna chiamata. Specialmente a quest’ora.
E perché sei su questo treno?
Forse perché sto cercando qualcosa. Non so bene che risposta ho in mente, oggi le cose sono andate molto male per me, così male che dopo cena ho vomitato. Erano le nove e mezza. E non appena mi sono ripulito le labbra dagli ultimi resti semi-solidi di rigurgito, ho chiamato un taxi e mi sono fatto portare qui. Non esattamente qui, ma alla stazione. Ho fatto il biglietto in una di quelle macchine molto complicate, probabilmente soldi sprecati perché a nessuno verrà in mente di controllare il mio biglietto.
Stai dicendo la verità?
Sono rimasto solo, questa è l’amara verità. Sabato sera, mi sono ritrovato a infilare nel forno una pizza surgelata e a mangiarla davanti alla televisione. C’era quel programma strano che parla di famiglie infernali dove la nuora viene uccisa dai suoceri o dal marito, guardarlo mi fa sempre un brutto effetto. Ceno da solo ogni sera, non è una novità, ma il sabato è diverso. Di sabato tutto è diverso. Mi sono visto da lontano, mentre mordicchiavo le croste bruciacchiate di quella pizza scadente, alzando di tanto in tanto il volume della TV perché mastico rumorosamente e il cibo che sbatte contro il mio palato non mi fa capire le parole che sento. E stavolta non ce l’ho fatta. Ho avuto l’impressione che qualcuno mi vomitasse nella pancia, così sono corso e ho vomitato anche io.
Pensi che i cessi siano soddisfatti quando qualcuno ci vomita dentro? Poverini, deve essere un’amara e deludente esperienza! Ma dov’è la mia merda con piscio? Che schifo è quest’immondizia ancora commestibile!?
La mia memoria è stata immobilizzata dai ricordi. I ricordi di quando la solitudine non c’era, di quando il sabato sera era davvero un momento per cui valeva la pena soffrire un’intera settimana. Una volta le cose erano diverse. Una volta ridevo. Poi ad un certo punto ho smesso di ridere, perché non c’è stato più nulla di divertente. Perché lui è rientrato nella mia vita, e forse è tornato. Forse sto solo scappando.
Oh, Danny boy! Ma tu lo sai come si chiama questo gioco?
Non so come sono arrivato a questo punto. Potrebbe essere un buon momento per ripensarci, perché tanto ormai ho capito che Sunk City l’abbiamo passata da un pezzo. Sono le 02:00, evidentemente non c’era nessuno a Sunk City che doveva salire su questo treno, per questo non ci siamo fermati. O forse questo treno non è mai partito perché non c’è nessuno su questo treno. Comunque mi sembra un ottimo orario per liberarmi la vescica, finalmente. Fumare? Mi sorprendo, non mi va in questo momento.
Danny boy, voglio che me lo ficchi dentro!
Non sono felice di aprire gli occhi di nuovo. Perché mi ritrovo ancora su questo treno e ammetto che adesso è difficile credere che io ci sia davvero dentro. Mi sarei aspettato di trovarmi sul mio letto, come ogni notte, e invece io su questo treno ci sono veramente, sono veramente partito. Non so come ho potuto fare una cosa del genere, è soltanto una follia. Dove credo di andare così, senza niente? Sono proprio uscito fuori di testa, sono impazzito nel giro di poche ore. D’accordo, cenare da soli il sabato sera non è il massimo dell’allegria, ma come ho fatto a farmi trasportare qui, comprare un biglietto di sola andata per non ricordo neanche dove e credere di fare sul serio!?
Oh, Danny boy, non ignorarmi come al solito! Dai, infilamelo tutto nel buchetto, mi fa sentire piena di scariche!
Il telefono vibra. No, non è una telefonata, lo so cosa vuole. Vuole essere ricaricato. Eh sì, già dichiara solo 14% di energia, mi dice di collegarlo ad una presa di corrente. Ma non è questo il punto. Sono già le 03:34, praticamente viaggio da oltre cinque ore, seduto da solo su questo vagone. Fuori dalla finestra vedo ancora sempre e solo buio che va, va in avanti senza una direzione.
Sospiro. Sono un coglione, un coglione! Vorrei prendermi a pugni, vorrei farmi del male, vorrei uccidermi solo per prendermene il merito. Mi sentivo solo, oh sì, e che faccio? Prendo un treno, senza pensarci su. E ora dove cazzo sono finito? Perché non ci fermiamo, perché non si arriva?
«Cristo», borbotto ad alta voce. E questo borbottio è forse la cosa peggiore che potessi fare. Perché sotto la luce bianca ci sono io, povero idiota, un pazzo che tenta di scappare da una serata di solitudine, e forse fin qui non c’è un vero problema. Ma il suono della mia voce è come un richiamo. E qualcuno risponde. Due colpi di tosse, tosse finta. Due colpetti come a dire: Ehi, vacci piano a scomodare nostro Signore Gesù perché non sei l’unico qui! Rialzo gli occhi e non sono, stranamente, contento di vedere ciò che vedo.
Il cappello sulla testa sul corpo del vecchio, seduto ancora su quella poltrona davanti alla porta del cesso, quella poltrona che ho visto molto da vicino quando sono andato in zona. Con la fronte aggrottata capisco che no, non è mai sceso da questo treno. Ma allora dov’era andato? Be’, se siamo solo io e lui su questo treno, non sarebbe forse educato presentarsi? Potremmo scambiare due chiacchiere, almeno il tempo passa più in fretta.
Non sta andando già abbastanza di fretta, Danny boy?
Al diavolo il vecchio cappello, non mi muovo di qui. Tra qualche minuto magari mi alzo un po’ per sgranchirmi le gambe ma per il momento non credo che sia il caso di alzarsi. Non posso fare a meno di sbirciare in direzione dell’amico ritrovato, mi sembra che stia leggendo un giornale. Colpa mia, come al solito, avrei almeno potuto portare un libro. Ma no, dovevo scappare. Voglio tornare a casa. So che è sbagliato, so che tornerò a casa e ritroverò quello da cui sto fuggendo, ma non voglio restare su questo treno da solo. Anzi, potrei restare qui se fossi davvero da solo, ma adesso il vecchio è tornato, e temo che abbia solo intenzione di limitare la mia libertà.
Ho le idee confuse, questo è chiaro. Ho le idee confuse sul perché sono qui, come ci sono arrivato, cosa è successo. È vero, mangiavo la mia pizza surgelata e mi sentivo solo. C’era un tempo in cui il sabato sera era solo un’occasione per essere un po’ più felice, quando non dovevo… Le luci bianche mi chiamano Danny boy, e sì, anche la mamma mi chiamava così. O forse mi sbaglio. Ma c’era qualcosa di cui mi ero dimenticato, con molta fatica, con molto dolore. Ormai sono passati due anni, due anni da quei sabato sera di allegria e spensieratezza. E amore. E anche se ho perso tutto, pensavo di avere risolto il problema. Questo è quello che non ho capito, questo è ciò che mi ha spinto a scappare via, a salire su questo treno. Questo è ciò che mi urlava addosso mentre partivo.
Il vecchio si alza dalla sua poltrona. Sì, ha in mano un quotidiano, e invece di metterlo giù continua a tenerlo ben spiegato di fronte alla sua faccia. Adesso vedo che indossa una sorta di gran cappotto marrone scuro. Inizia a camminare verso la toilette, le braccia bene in alto a sorreggere il giornale che gli copre del tutto la visuale. Usa il gomito per muovere un po’ la maniglia della porta, entra nel pisciatoio e si richiude la porta alle spalle con un piede, così non è costretto a voltarsi e guardarmi. Soprattutto, non è costretto a smettere di leggere il suo giornale.
È tornato, Danny boy? È per questo che hai vomitato e sei scappato?
Non posso mentire più, no. Sì, è tornato. E io ho paura.
Ma non mi senti? Cazzo, Danny boy, voglio che me lo ficchi!
Il telefono si scarica più velocemente, deve essere tutta colpa di quella lucina rossa che continua ad emettere. Una cosa molto stupida, no? Se un telefono sta per scaricarsi, dovrebbe fare di tutto per mantenere la sua energia intatta, e invece questo che fa? Lampeggia rosso. Rosso, rossissimo. Rosso come Lucy.
Quando è stata la prima volta, Danny boy? Te lo ricordi?
Non ricordo. Non so neanche perché mi ossessiona il pensiero che il vecchio non uscirà mai da quel gabinetto. Fuori ha cominciato a piovere, e per un momento la finestra contro cui appoggio la fronte diventa diversa, ha un odore più buono, sa di casa. La pioggia bagna l’erba, un pomeriggio di marzo non si sa mai, ora c’è il sole, ora cade così tanta acqua che quasi si annega. Sono triste perché non posso uscire a giocare, e non mi interessa che mia madre mi stia facendo i biscotti. Ho solo cinque anni e non so perché lo so. Ma so che è il 7 marzo, solo di molti anni fa. 1996? Sì, perché faccio il compleanno a dicembre. Ricordo bene quel giorno, anche se non accadde nulla di che. Sono rimasto in cucina insieme alla mamma, la aiuto a fare i biscotti, poi ne mangio tanti, veramente tanti, tutti inzuppati nel tè con latte. Poi torna papà, la cena è magicamente pronta anche se io non ho fame, e poi vado a letto presto come tutti i bambini. Chissà, forse mi infilo sotto le coperte proprio alle 22:24, lo stesso orario in cui sono salito su questo treno fantasma. Penso che mi addormenterò come sempre, già fantastico nei miei pensieri e mi immergo in situazioni che non vivrò mai. I sogni dei bambini sono stupidi, ma non stupidi come i sogni dei grandi. Succede tutto pochi istanti prima che il sonno abbia la meglio. Sento la sua voce per la prima volta.
Sveglia, Danny boy!
Alle 04:13 il vecchio non è ancora uscito dalla toilette. Potrebbe essergli accaduto qualcosa, probabilmente dovrei alzarmi, bussare e chiedere se sta bene. Per poi sentirmi gridare insulti per aver disturbato la sua meditazione fecale? No, diamogli pure tutto il tempo di cui ha bisogno, non c’è fretta.
Allora tua madre non ti ha mai chiamato Danny boy?
Probabilmente mia madre non mi ha mai chiamato in quel modo. L’ho già detto, sono molto confuso su diverse cose, non sono capace di dire con esattezza ciò che è successo veramente e ciò che ho soltanto immaginato, ma non lo faccio intenzionalmente.
Non me ne frega un cazzo di chi ti chiama come, lo voglio dentro!
Il treno continua a correre su questo binario verso il nulla. A che ora dovrei arrivare? Non ricordo bene, credo che dovrei riuscire a scendere da qui verso le sette del mattino. Avevo letto gli orari, non sono salito qui su del tutto sprovveduto. Probabilmente poi farò una buona colazione e riprenderò lo stesso treno per tornare indietro. Non facciamo altro che andare avanti e indietro tutti i santi giorni della nostra vita, no? Perché questo dovrebbe essere diverso?
Ma quella notte fu diversa, no?
Non mi sono alzato subito. In realtà, credo ci sia voluto molto tempo prima che decidessi di uscir fuori dalla confortevole sicurezza delle mie coperte. Quando hai cinque anni e nella testa ti frullano mille fantasie, è difficile convincersi di essersi semplicemente immaginato qualcosa. Le spiegazioni razionali non hanno quasi effetto sulle menti infantili, non puoi mettere un bambino in una stanza buia e chiedergli di non immaginarsi mostri e creature dietro ad ogni angolo. E forse me lo sono anche detto, devo averci provato. Ma poi lo ha fatto di nuovo.
Sei sveglio, Danny boy?
La seconda volta ricordo di essermi pisciato un poco addosso. Perché adesso lo so da dove viene la voce, pensavo che fosse nella mia testa, e invece no, è ancora più vicina, in un certo senso. È sotto il letto. Non è una voce da grandi, questo lo capisco, ma non penso che sia un bambino della mia età. O magari mi sbaglio, l’ho già detto di essere molto confuso, e uno non ricorda così facilmente cose accadute così tanti anni fa. Però ricordo di avere risposto, perché mi sono detto che non dovevo avere paura, che mica sarei potuto scappar via e quindi tanto valeva farsi avanti.
«Sono sveglio», dico a chiunque sia colui che mi chiama da sotto il letto. Porca vacca, quanto sarebbe stato facile ignorarlo! Quanto sarebbe stato facile…
Il treno si ferma per una qualche ragione. Lo so, lo vedo che si ferma, la mia poltrona ha smesso di vibrare. Dobbiamo essere arrivati in una qualche stazione, non c’è altra spiegazione, solo che non ricordo di aver letto che ci saremmo fermati alle quattro e mezza. Sento un soffio, come se qualcuno facesse psss lì in fondo, forse nell’altro vagone, forse in un vagone ancora più avanti. Deve essere qualcuno che scende. O forse qualcuno che sale, se questo treno è vuoto.
Lo sai come si chiama questo gioco, Danny boy?
Sì, mi fa questa domanda. Non appena dico di essere sveglio, mi chiede questo.
Comincio a essere sinceramente preoccupato per il vecchio. Ormai sarà quasi un’ora che è chiuso lì dentro.
Ti preoccupi di quello stupido vecchio, Danny boy, e a me non pensi? Non pensi alle mie terribili sofferenze, mentre aspetto che mi infili quel coso!? No, non era per il piacere di sentirmelo dentro, è per vivere! Non è un cazzo, è una flebo!
Lo so che il mio telefono sta per cedere. Non ci ha messo molto a raggiungere il 7%, chissà ancora per quanto tempo continuerà a lamentarsi con quella lucina rossa che urla, urla. Sì, urlò.
Come urla Lucy, Danny boy?
Quando non risposi alla sua domanda, la ripeté ancora una volta, era arrabbiato.
Lo sai come si chiama o no, Danny boy?
«Quale gioco?», gli chiedo, ma non risponde. Non dirà più niente per giorni, settimane. Forse mesi. Credo che non dirà più nulla fino al marzo 1998, ma ogni notte, quando vado a letto, io so che c’è. Io so che lui è sotto di me, che mi ascolta respirare mentre dormo. A volte mi chiama così piano che quasi non lo sento; altre volte fa delle pernacchie per svegliarmi. Ma solo nel marzo 1998 risentirò quella domanda.
Cosa è successo nel marzo 1998?
I miei genitori non erano poveri, neanche ricchissimi, ma ce la passavamo bene. Fino ad allora ero stato il loro unico figlio, poi nel marzo 1998 arrivò Roger. Ricordo di essere stato molto felice per l’arrivo del mio nuovo fratellino, mi sentivo promosso ad un grado superiore, avevo responsabilità e compiti nuovi. Era una bella vita.
Sento dei passi nel vagone vicino. Sì, qualcuno deve essere salito sul treno, ma perché cammina? Dovrebbe sedersi e non dar fastidio, non c’è bisogno che tutti si accorgano della sua presenza. Certe persone non hanno maniere.
Che c’è, hai paura, Danny boy?
Me lo ha chiesto, sì, la prima notte in cui Roger è arrivato in casa. Eravamo affamati, io ero stato in ospedale con la mamma tutto il giorno, e poi finalmente papà ci aveva portati a casa. Non c’era niente per cena, così papà ha ordinato le pizze. Ma a ogni trancio di pizza io mi alzavo dalla sedia, mi alzo e vado a vedere se Roger sta bene nella sua culla. Quando constato che dorme, torno a tavola e mangio un altro spicchio di pizza. E poi mi rialzo. Mamma e papà sorridono e commentano il mio comportamento, dicono che sarò un ottimo fratello maggiore.
Respira, Danny boy?
Anche se non sentivo la sua voce da tempo, non avevo mai smesso di credere che era sempre rimasto lì sotto al mio letto. Mi chiede se ho paura, se respira. Non c’è bisogno di specificare, lo so che parla di Roger.
Sento il rumore dello sciacquone. Mi rendo conto solo adesso di essere stato in ansia per tutto questo tempo. Bene, adesso finalmente il vecchio uscirà. Sono già le 5 e forse questo viaggio sta per concludersi. Vorrei solo che quel tizio nell’altro vagone la smettesse di girovagare, il rumore dei suoi passi mi innervosisce. Quanto tempo resterò ancora seduto qui senza apporto di nicotina? Cristo, non fumo dalle 22:24, sapevo che avrei dovuto fumarla tutta, quella maledetta sigaretta! Lucy non faceva altro che lamentarsi del fatto che fumassi le sigarette fino al filtro, diceva che mi faceva ancora più male. Ma io non ci ho mai creduto. Credevo a molte delle stronzate che diceva, ma a quella mai. Due anni fa non sarei salito su questo treno. Due anni fa non avrei vomitato. Due anni fa non avrei mangiato una pizza surgelata da solo, non di sabato. Due anni fa non sarei fuggito.
Sto morendo, Danny boy!
Sta morendo, Danny boy! Lo sto uccidendo per te!
Cosa!? Danny boy, cosa hai fatto?
È solo il telefono. Ormai sta per spegnersi.
No, Danny boy! Cosa è successo al piccolo Roger?
Le luci bianche hanno un brutto vizio. Illuminano bene e senza sentimenti. Se ti trovi in una stanza illuminata da luci bianche, ogni cosa che vedrai sarà cruda e spietata. Sarà vera. La luce bianca è il faro disincantato che stende la sua mano su un mondo devastato dalla sua bruttezza.
È successo la prima notte in cui Roger è stato a casa. La notte in cui la voce ricomincia a parlarmi, mi dice delle cose brutte. Un bambino di sette anni si lascia facilmente convincere, specialmente se a parlare è qualcuno che abita sotto il suo letto.
«Chi sei?», gli chiedo, ma non risponde. Mi domanda se ho paura.
Non hai paura, Danny boy?
«E di cosa?», chiedo, e provo ad avere un tono coraggioso.
Il vecchio continua a rimanere chiuso nel cesso. Io non credo che volesse fargli del male. Non lo so. Non capisco perché avrebbe potuto volere una cosa simile. È cattivo, questo lo so. Ma per qualche motivo non mi ha mai fatto paura, non poi così tanta.
Danny boy, cosa accadde al bambino?
Danny boy, sto morendo! Mi hai ucciso, brutto stronzo, volevo solo la mia cazzo di flebo! 1% di vita e non vuoi ficcarmelo! Aiutatemi, aiutatemi tutti!
Il telefono si è spento. Pazienza, proverò a farne a meno, tanto lo usavo solo per vedere quanto tempo della mia vita sto perdendo seduto su questa poltrona. Con Lucy non c’era il tempo di starsene seduti sulla poltrona, eravamo sempre in giro da qualche parte, era divertente. Poi il sabato sera ci chiudevamo dentro casa, ci amavamo, cucinavamo insieme. Lucy non avrebbe dovuto avvicinarsi così tanto, ma non poteva sapere.
Cosa?
Sotto il mio letto c’è qualcuno. Mi dice delle cose, mi fa vedere delle cose. Ho paura che possa fare del male a Roger, ho capito che vuole fargli del male. Ma io non posso impedirglielo, non riesco a staccarmi dal letto in cui mi trovo, come adesso non sono capace di alzarmi da questa poltrona per andare a vedere se il vecchio in bagno è crepato oppure no.
Lo hai ucciso tu! Lo hai ucciso come hai ucciso il tuo telefono, sei rimasto fermo ad aspettare, non credevi che l’avrebbe fatto.
Domande, troppe domande, e io sono ancora molto confuso. Sto scappando, ma non so da cosa. Scappo da tutta la vita, scappo da quella cosa che mi parla da sotto il mio letto. Quel mostro che ha
Respira, Danny boy?
ucciso Roger.
Lo so che è stato lui, anche se non ricordo molto di tutto quello che accadde quella notte. Perché quella notte dormimmo tutti tranquillamente, poi al risveglio corriamo in fretta e furia in ospedale, ma non c’è più niente da fare, ormai è andato via da ore. Saranno anni brutti della mia vita, gli anni in cui sono cresciuto. Sono cresciuto da solo.
Sei da solo?
Solo con il mostro sotto il letto. Fino a quando non venne fuori da lì sotto.
Il treno frena bruscamente, chissà se siamo arrivati. No, solo un semaforo. Ci saranno altri treni in giro a quest’ora? O solo io viaggio nel cuore della notte? Non è più notte, ormai è quasi l’alba. Forse potrei provare a dormire di nuovo, ma adesso ho paura. Ho paura che il vecchio esca dal bagno, ho paura che il nuovo inquilino dell’altro vagone possa decidere di passare alle presentazioni ufficiali. Ho paura che la luce bianca possa entrarmi in testa.
Parlami dello specchio, Danny boy. Through the looking glass.
In un certo senso me la sono cercata. Non è che abbia voluto che tutto questo accadesse, no, ma in un certo senso non ho voluto evitarlo. Arriva un’età per noi maschietti in cui dobbiamo metterci davanti allo specchio per diversi minuti. È quel periodo in cui devi passarti una lama sulla faccia come se fosse un giocattolo innocuo, per tagliar via quei peli nuovi e fastidiosi con cui conviverai per sempre. La prima volta mi aiutò mio padre: mi cosparse un sacco di schiuma sulle labbra e sulle guance, e poi mi insegnò a radermi senza farmi male. La seconda volta ero così imbrattato di sangue che mi sono rifiutato di rifarlo per tre settimane. Ma poi mi sono accorto di somigliare ad una scimmia brutta e ci ho riprovato.
Vuoi vedermi?
La prima cosa che Lucy ha notato quando l’ho portata a casa è stata l’assenza di specchi. Non è che non abbia specchi a casa, mio padre ne ha tenuto uno bello grande nella sua stanza, ma non ci sono più specchi in corridoio e neppure in bagno. Papà si fa la barba nella sua stanza, e lui la fa a me. Quando la mamma è morta, cinque anni fa, lui è cambiato molto. L’idea di togliere gli specchi è stata sua, non mia. È stato per la mamma. Poi Lucy è entrata nella mia vita, ma anche nella sua, e ho visto che era felice. In qualche modo, era felice che io riuscissi ad andare avanti.
«Come mai non hai uno specchio in bagno?», mi chiede la prima volta che va a fare pipì a casa mia. È difficile rispondere alla sua domanda perché è passato molto tempo dall’ultima volta che mi sono guardato allo specchio. Di tanto in tanto, se proprio ne ho bisogno, corro nella stanza di papà e mi do un’occhiata, ma devo essere molto veloce, perché se si accorge che sono davanti allo specchio, viene lì a uccidermi. E questo papà non lo sa. Lui sa solo che, cinque anni fa, quando avevo ancora diciannove anni – credo di sì, ma non so fare conti precisi –, la mamma ha deciso di esplodere. Io so che non è così. È stato lui.
Il mio stomaco emette una sonora lamentela. Sì, ha ben diritto di lamentarsi, gli ho dato solo quella orribile pizza surgelata e poi l’ho svuotato con violenza. Non avrei dovuto vomitare, su questo treno non c’è nulla da sgranocchiare. Oh, il caro dolore della gastrite torna a prendermi a pugni! Ma che colpa ho io? Queste pizze surgelate sono veramente disgustose, hanno tutte un odore di metallo sporco. Sembra odore di sangue.
Va’ a farti la barba, Danny boy. Ci incontriamo allo specchio.
La voce mi raggiunge mentre sto facendo i compiti. Studio al liceo, sono un bravo studente di sedici anni. E spero che quella voce non sia altro che una fantasia infantile.
Un altro sciacquone. Forse il vecchio adesso uscirà allo scoperto, la luce bianca investirà anche lui e lo denuderà nella sua triste verità. Proietto il mio sguardo verso le poltrone dell’altro vagone, riesco a vedere qualcosa. Sì, c’è quel nuovo passeggero, seduto più o meno in un posto come il mio, nella stessa fila.
Non so perché mi alzo da dove sono seduto, dalla mia comoda scrivania, dove i miei pensieri possono posarsi sui libri, sulle cose da studiare. Non dovrei alzarmi, non posso andare a farmi la barba solo perché qualcuno me lo dice. Ma lui non è qualcuno. In questo momento mi rendo conto di essere vissuto in un’illusione, la sciocca illusione che non ci fosse niente sotto al mio letto. Ma quando lo sento parlare, capisco che è da lì che parla. È lì sotto.
Allo specchio vedo solo la mia faccia. Comincio a ricoprirmi di schiuma bianca e sono sul punto di radermi. Continuo a guardare la mia espressione come se dovesse succedere qualcosa ma non è lì che devo guardare. Entra dalla porta, in quel piccolo angolo in basso a sinistra nello specchio. E urlo.
Sono molto confuso. Questo treno non sembra seguire alcuna direzione, continua ad andare senza meta. Sola andata, nessuna fermata. Ho bisogno di dormire ancora.
Quando apro gli occhi, la porta del cesso è aperta. Credo che a svegliarmi sia stato proprio il fetore di piscio stantio che viene fuori da lì. Penso di aver dormito per molto tempo, ma è ancora notte fuori. C’è silenzio. Mi sollevo per guardarmi intorno, i miei sospetti sono fondati: non c’è traccia del mio vecchio amico, deve essersi dileguato in una fermata
Non ci sono fermate in questo viaggio.
o magari ha consumato la sua esistenza al cesso. Ha cagato tutto se stesso. È un pensiero divertente, no? Sono solo, adesso. Non sono sicuro che nell’altro vagone il tizio sia ancora seduto, io non lo vedo, ma potrebbe anche solo aver cambiato posto. Mi fa male la testa, la gola mi brucia. Non ho nulla da bere, un vero colpo di genio! Non bisognerebbe mai andarsene senza una bottiglietta d’acqua e qualcosa da sgranocchiare, ma se non ho fatto male i conti, ormai questo treno sta per arrivare. Arrivo di mattina, no? Ma non è mattina, mi sembra ancora notte fonda.
Mi bruciano gli occhi, tutta colpa di questa maledetta luce bianca.
Se non fosse per me, Danny boy! Oh, se non fosse per me…
C’era una luce bianca anche in bagno. Sullo specchio, sì.
Come si chiama questo gioco, Danny boy?
Sono stato io a trovarla. È stato l’ultimo giorno che sono andato all’università, da allora la mia vita si sarebbe interrotta. Fino a Lucy.
Mi serve un’ambulanza, mia madre sta male!
Non sta male. La mamma è morta. Ha rotto lo specchio del bagno e…
Come si sente una torta quando inizi a tagliarla a fette?
Che giorno era? Forse non ero all’università. Ci sono delle cose che non ricordo, ma forse la luce bianca mi aiuterà a vederci più chiaro. Ma io sapevo che la mamma non era esplosa da sola. Non soffriva più così tanto per la perdita di Roger, ormai ce l’aveva quasi fatta. Attraverso lo specchio.
Raccolgo un po’ di saliva nella mia bocca dal sapore tremendo e cerco di far finta che sia acqua, anche se ha la consistenza del fango. La conformazione del nostro corpo è strana, a pensarci. Siamo fatti in modo da poter guardare le facce degli altri direttamente, ma non possiamo vedere noi stessi. Gli altri animali non hanno idea del loro aspetto, se li metti davanti a uno specchio credono di aver davanti un altro animale. Noi sappiamo che faccia abbiamo, da sempre. Perché ci siamo visti allo specchio. Potrebbe essere una bugia, dopotutto. Potremmo essere molto diversi da come lo specchio ci mostra, e come potremmo saperlo?
Mi volto verso il vetro della finestra di questo vagone, riesco a malapena a specchiarmici.
E non hai paura, Danny boy? Non potrebbe essere qui con te su questo treno?
Mia madre non mi ha mai chiamato in quel modo. È sempre stato lui, solo lui. L’essere sotto il letto, quello che si vede attraverso lo specchio. E adesso comincio a temere che lui sia qui su questo treno insieme a me, non posso scappare da lui. Non capisco perché, ma non posso. Come fa a seguirmi? Mi alzo in piedi, voglio camminare. Vorrei tanto sapere che ore sono, perché su questo treno non ci sono schermate che mi dicono l’orario e il luogo in cui siamo arrivati? Negli altri treni funziona così, c’è sempre quella schermata che ti dice tutto.
Sola andata, nessuna fermata. Danny boy!
Vado nell’altro vagone. Voglio vedere se c’è ancora quell’altro signore o se anche lui è andato via, in cerca di un sentiero più fortunato.
Lo sai come si chiama questo gioco!?
Mi volto. Ed è lì, in fondo a questo vagone in cui mi trovo dalle 22:24 del 7 marzo 2015. Mi fissa da lontano.
Ho conosciuto Lucy una sera di novembre al cinema. Non andavo al cinema da molti anni, quella sera decisi di andarci da solo perché mi piaceva il film che proiettavano, mi piaceva così tanto che adesso neppure ricordo che film fosse. Alla fine del film mi sono fermato davanti al cinema per fumare una sigaretta, in attesa dell’autobus che mi avrebbe riportato a casa. C’era anche lei, e sapevo di averla vista in sala. Non è stato difficile prendere la parola, ho capito subito che era una ragazza gentile, ed era sola, volevo solo fare due chiacchiere. Basta chiedere se il film ti è piaciuto, poi si comincia a parlare senza problemi. Non è che dopo quei cinque minuti di parole buttate al vento ci siamo innamorati, in realtà non ci siamo visti per settimane. È stato tutto per caso. Di nuovo a quella fermata, un altro giorno. Ma non sei quella del cinema? Ah, sì! Ma come stai? È come se ci conoscessimo da anni. Incontrare una persona per caso una volta non significa nulla. Se accade una seconda volta, allora significa tutto. Einmal ist keinmail, zweimal ist immer. Non conosco il tedesco, ma questa frase mi piace. Una volta è mai, due volte è sempre.
Danny boy, non far finta di non avermi visto! Sono qui da quando sei salito su questo treno, non puoi andar via da me.
Perché non posso fuggire da lui? In piedi, lontano, lì in fondo. Lo so che se mi volto e scappo, lui mi inseguirà. Vuole farmi del male? Non credo, perché ha avuto tante occasioni per farlo, ma…
Ma tu hai tolto via gli specchi!
Cosa hai fatto a Lucy, Danny boy?
È stato… Non avrebbe dovuto. Non Lucy.
Le dico che esco per andare a prendere un paio di pizze. È il nostro ultimo sabato di felicità, un sabato di due anni fa, quando le pizze non erano surgelate.
Quanto tempo è passato, Danny boy?
Faccio un passo in avanti. Non mi ero accorto di quanto fosse grande questo vagone. È enorme, e lui è laggiù ad aspettarmi. Anche lui fa un passo verso di me. Ci stiamo sfidando.
Lo sai come si chiama questo gioco, Lucy?
Come?
«Ma non eri andato a prendere le pizze?», mi chiede.
È stato lui, lo so. Non avresti dovuto toccarla. Faccio un altro passo avanti, adesso sto quasi camminando. Non ho paura di te. Non posso scappare per sempre.
Come sei strano, Danny boy! Cosa ti prende?
È la voce di Lucy. Di che gioco sta parlando?
Di che gioco parli, Danny boy?
Chi vedi attraverso lo specchio?
Non ho idea di cosa ne è stato nella mia vita in questi due anni. Perché forse non è passato così tanto tempo. Potrebbe essere accaduto più recentemente?
Mi avvicino sempre di più. Mi muovo su questo treno immobile ormai da ore, un treno che forse non è mai partito e che non fa nessuna fermata.
Guardami, Danny boy! Che cosa vedi?
Che cosa ho visto attraverso lo specchio mentre mi facevo la barba? Era domenica quando mia madre è esplosa, non sono andato all’università. Io ero in casa, e c’era anche lui.
Hai già preso le pizze? Ma sei stato via solo una manciata di secondi!
Oh, Danny boy, cosa hai fatto!? Lei era tua, era tutta tua, perché le hai fatto questo?
Il vagone non è grande come credo. È un effetto ottico. È uno specchio che mi è sempre stato dietro.
Lucy urla. No, non due anni fa. Forse è stato un po’ prima.
Poche ore fa.
Non c’è nessuno attraverso lo specchio. Ormai sono vicinissimo, quasi lo tocco. La luce bianca illumina il mondo devastato da se stesso. Quel mondo sono io. Non c’è mai stato nulla oltre lo specchio. Nello specchio ci sono io. Danny boy.
Ho mangiato solo una pizza surgelata nella mia vita, quella di stanotte. L’ho messa in forno mentre Lucy finiva di inghiottire aria sul divano. Ho provato a mangiare ma poi ho vomitato. Sono scappato su questo treno, ho iniziato un viaggio che mi ha portato solo davanti a questo specchio. Non sopporto la luce bianca perché mi ricorda che, solo perché non mi piace qualcosa, non significa che non possa essere vista.
«Lo sai come si chiama questo gioco, Danny boy? Ci giochi da sempre. Hai sempre giocato da solo, nessuno vuole giocare con te.»
Sono salito su questo treno alle 22:24 di sabato 7 marzo 2015. Voglio solo scendere e fumare una sigaretta. È solo un gioco, dopotutto.
***
In copertina: cover graphic novel Jacques Lob, Jean-Marc Rochette, Snowpiercer, vol 1: The Escape, Titan Comics, 2014.