“For doubt and secrecy are the lure of lures, and no new horror can be more terrible than the daily torture of the commonplace.”  (H.P. Lovercraft)

 

A mio modo sono un middle-class hero. Riesco a spingere la porta corazzata socchiusa, varco la soglia. Penso al peggio, cammino su suole di gomma, il parquet è nero. La luce artificiale mi evita di far danni, aiuta a muovermi lungo il corridoio. Vedo Donna Sarco seduta sul letto, la sua schiena nuda, l’intero busto e la testa come raccolti tra le cosce aperte. Sembra si muova ancora, ma forse sono solo la sua e la mia adrenalina e io proseguo: non è davvero lei che voglio vedere.
La camera della ragazza è dove la immaginavo; finita la casa, sono dentro, mi trattengo a guardarla. Lei senza vestiti, distesa sul suo di letto. Scomposta, una gamba penzola giù da quel due piazze sfondato, il piede e le unghia smaltate toccano il pavimento in una torsione di ogni legamento. Spinte sul bacino a spezzare le ossa, pressioni ripetute fino a spezzare due piedi del letto. È l’odore di sesso, così forte, compresso nella stanza. Milioni di dita curiose e umide. Comprendo adesso l’angolo impossibile della colonna vertebrale della madre. La differenza è ancora sugli angoli del letto abbattuto, i fluidi a scurire le lenzuola, brilla al sangue il pavimento nero. Gocce da lei attraverso quel materasso, sbattuto ma peggio il corpo giovane. Potrebbe essere ancora in casa: l’odore, un movimento del legno e della gamba che pare solo ora cessato.
Su Adele, se quella cosa è vera, quell’essere si è accanito.
L’ultimo tributo è pagato a chi come me ha sempre fame.

Devo essere veloce. Sento Nozik dall’altra parte della strada che riprende ad abbaiare. Il momento di tornare indietro, uscire da questa casa. Esco dalla camera di Adele e prendo subito per il corridoio e sul parquet, costoso, lo vedo.
Si muove ancora. Sento Nozik abbaiare.
Ho dei brividi, lo vedo per terra, quella sorta di lunga coda punta su di me e no, non sono sorpreso che sia lì.
Non lo sono che mi guardi.

1.

Bisogna capire che per me trasferirmi in una casa tutta mia è stato tecnicamente — negli ambiti di quella tecnica del sopravvivere nella società contemporanea senza eredità o fondo fiduciario — un miracolo.
Poco più di settanta metri quadrati, un piano terra e un giardino in potenza. Tutti i numeri della lotteria sociale erano contro di me eppure sei mesi fa eccomi da un notaio, a firmare un atto che mi eleggeva proprietario di un appartamento. La legge appunto dice che è mio, i numeri rispondono che mura e tetto sono della banca. Dovrei andare con ordine ma tocca dire che l’acquisto della casa non è stato l’unico miracolo della mia vita.
Sono arrivato a 31 anni senza precedenti penali, regolari mancanze di soldi mi hanno evitato la cirrosi epatica. Sono stato tanto fortunato da evitare malattie veneree serie, a parte una gonorrea che colpì in massa una delle mie comitive dell’epoca. Ho donato il sangue almeno sei volte, buone azioni e test HIV gratuiti. Con speed e cocaina ci stavo rimanendo sotto. Tutta colpa delle donne ovviamente, sono cresciuto in un momento in cui offrire da bere non bastava. Come per l’alcool, i ciclici rosso fisso sul conto corrente mi hanno evitato di diventare un tossico serio. A parte questo ci sono stati un paio d’incidenti ma ormai la scienza medica e lo stato sociale risolvono la questione aborto senza gravi patemi, costi e complicazioni. Una volta ho investito un motociclista, non ne sono sicuro, interi mesi e anni sono spariti dalla mia memoria di trentenne, di certo c’è solo che nessuno è mai venuto a cercarmi.

Per altre fortune, tutte genetiche, mi ritrovai in una delle facoltà di Legge più importanti d’Italia, il che non spiega nulla. Riesco ad abilitarmi a Milano, sono un drago al concorso e, sopravvissuto a un festino lungo una settimana, torno nella mia città. Per il mio futuro la destinazione ragionevole non poteva non essere il penale e, sempre per il caso a me favorevole, vengo assunto — ovviamente a zero euro e zero quota — in un prestigioso studio di Palermo. Il non essere pagato mi ha evitato certamente casini, dopo troppi anni per me questa città è esotica. Sui diari degli esploratori esotica stava per oro e passera straniera, ma quella nota non inquietante che si può sentire in questa parola forse è dovuta anche all’avere spada e archibugio ed essere accompagnati da intere gang di lestofanti dai peggiori quartieri europei. Io invece ero solo, intorno a me stellari statistiche di disoccupazione giovanile: potevo concentrarmi a fare ancora più ricco lo studio Mignosi, patrocinante in Cassazione.
Passarono pochi mesi ed ero talmente invisibile che il titolare di studio e i colleghi non si accorsero mai che indossavo sempre lo stesso maledetto completo grigio. Per loro ero invisibile ma ecco ancora un’altra fortuna: grazie all’operazione Verre sono loro a sparire. L’avvocato Mignosi, principe del foro, all’improvviso divenne un Giobbe della professione legale: le richieste di custodia cautelare gli piombarono addosso immeritate e con furia preordinata. Mai la DIA o qualunque procura avevano trovato un nome più azzeccato per un’operazione antimafia: una trentina di avvocati in tutta la Sicilia in prigione. Niente domiciliari, direttamente all’Ucciardone. La mia fortuna fu che ben otto degli ingabbiati erano dello studio per cui stavo lavorando gratis. Segretarie a parte, il giorno prima dell’operazione Verre, c’erano solo nove avvocati. Se non prendi soldi, se sei invisibile, non ricevi neanche un avviso di garanzia. Liquidata la forza lavoro del glorioso e traffichino studio Mignosi toccava a me ricevere i clienti rimasti e sì, patrocinare quelli nuovi.

2.

Mi trovai a risolvere gli incidenti collaterali sul suolo palermitano della Black Axe, la mafia nigeriana. Si trattava comunque di poca roba, qualche cugino sfortunato mandato a farsi le ossa con lo spaccio, piccole discussioni che degeneravano quando le fidanzate bianche scoprivano che in Nigeria ci si sposa molto presto. Avevo guardato le foto segnaletiche dei nostri assistiti e quei neri sembravano tutti uguali. Nessun razzismo in questo: erano davvero uguali. Come tutti gli emigrati di ogni razza e nazionalità, quei nigeriani venivano tutti dalla stessa tribù, gli Horuba: praticamente erano tutti, più o meno, parenti. Gli immigrati sono sempre ottimi clienti ma i grandi casi, per fortuna, mi erano preclusi. Mi trovavo comunque nella posizione di poter ricevere favori non richiesti, intere parti della Palermo nelle sale dei bottoni si prodigava per me — tutte le garanzie e le perizie per il mio mutuo sono infatti candidamente false ma diciamo che c’era la bolla immobiliare negli Stati Uniti e l’Italia è sempre avanguardia —, piccoli funzionari e piccoli mafiosi bianchi pensavano fossi coraggioso a rimanere al timone. Credetemi: si arriva a un punto in cui la gerontocrazia siciliana è davvero utile ai giovani. Conoscono la fame dei giovani perché ricordano la loro. In quel momento, proprio mentre potevo permettermi di togliermi due sfizi e pagare l’iscrizione all’albo, si presentò il problema di Jack Agatu Evaristo.

Alle otto del mattino — sono l’Occidente che è malato e al massimo della sua potenza — attendo l’orario di visita. Finire troppe serate da Annabelle stava trasformando una necessità abitativa in una frequentazione. Ho conosciuto anche un altro tipo di gente giusta, coetanei appartenenti alla media borghesia che non lavora ma che ha abbastanza soldi per picchiare e tradire le fidanzate di turno senza temere conseguenze di alcun tipo. Sono i miei clienti del futuro, un luogo di cui rifletto davvero solo adesso, fotosensibile. Indosso un paio di occhiali da sole che non sono miei, bottino quasi inconsapevole dell’ultima serata, a compensare soldi che non avrei dovuto davvero spendere. Li tengo anche mentre leggo il fascicolo preliminare di Evaristo, qualcuno della compagnia giusta deve aver messo della decente MDMA in uno dei miei bicchieri. Stavo per dire ad Annabelle che la amo, ci rifletto mentre la storia che le carte di Evaristo raccontano attira la mia attenzione.
Non è giovane, ha 43 anni. E non è un nero ma quasi, non si può scambiare per un bianco caucasico certo ma tra gli avi ne deve avere più di uno. Laureato in filosofia e teologia a Lusaka e in agraria ad Harare. Dichiara di essere un prete animista e lo fa in italiano. Non è nigeriano o di nessuna delle comunità straniere presenti in città. È qui con un bel visto business della durata di 4 giorni concesso per un meeting con la Asmodeo Financial Service di Palermo, fatto che sottolineo —  mai sentiti — un cliente porta altri clienti. Definisco il profilo del cliente per la richiesta di scarcerazione ed espulsione: un uomo d’affari angolano, sfortunato e arrestato per violazione di domicilio e possesso d’arma impropria. Reato minore, persona integerrima e straniera. Dovrebbe essere già su un aereo diretto per la sua Africa, poi guardo la foto del grosso machete, un utensile pesante, davvero sprecato per tagliare le erbacce in un appartamento della Zisa e non in mano a Schwarzenegger. Lo vedo entrare nella sala colloqui, alto, di quella classe di magri che non ingrasserebbero neanche ad alimentazione forzata di leccornie, indossa una camicia bianca che sarebbe davvero pulita se non fosse stata in una cella di sicurezza nelle ultime ventiquattro ore. Si siede di fronte a me.

«Mi manda Tony Tsumba. Sono il suo avvocato» dico, per chiarirci subito. Noto che non ha alcuna idea di chi sia Tony, che anche lui ha bisogno di dormire, la sua pelle giallastra sembra trasparente alla luce.
«Sono stato incastrato» dice Jack Agatu Evaristo, «e non sono un ladro».
«Non sarà facile insomma tirarla fuori presto» aggravo la situazione, non ha una laurea in Legge e devo anche convincerlo che ha bisogno di me davvero. «Che ci faceva in quell’appartamento?»
«I nigeriani lo sanno, i suoi amici bianchi lo sanno, lei avvocato ha bisogno di dormire e dovrebbe saperlo anche lei. Non sono certo venuto per rubare ma a riprendere invece. Avete esagerato, non avete il controllo. E non dica che “parlo bene in italiano”, so di parlarla bene, la vostra lingua non ha niente di impossibile e misterioso.»
Controllo tra le carte del fascicolo, sento odore di soldi che è davvero simile a quello di sudore, disinfettante, contenimento forzato, detersivi che hanno solo le imprese di pulizie.
«Io non so di cosa sta parlando e non mi interessa. Quello che voglio è evitare di farla rimanere in custodia e rimetterla su un aereo quanto prima. Tocca limitare le variabili della sua posizione con la giustizia italiana. Le dico subito che sarà un problema per lei tornare in Italia comunque… L’importante è controllare la situazione e che lei torni libero.»
«Avete cambiato idea, ho capito. La terra non è infinita, certe cose non vanno fatte così, come fate voi muntako samtaka. La ambuya non vuole più diavoli nella sua zona e il tikoloshi non è buon. Deve rimanere girato.»
Mi ero già fatto una cultura di stregonerie nere assortite, il ju-ju alle prostitute, le magie di sangue. Un po’ da Dylan Dog e dai fantastici almanacchi del terrore e molto dopo dai report di polizia. In queste storie non sento davvero odore di parcelle pingui ma solo di mutande sporche e sudore. «Io invece non parlo e capisco africanese, signor Evaristo.»
«Lui ara i campi, quando beve è invisibile» dice mentre stranamente solerte è pronto a tornare in cella, «ha la stessa fame».

Esco e ho davvero bisogno di carboidrati e proteine, un’arancina con carne accompagnata con coca cola e i suoi zuccheri ridondanti con la caffeina, tutta roba che il mio stomaco non reggerebbe ma di cui io ho bisogno. Salgo in auto e dalla chiamata che ricevo so che il mutuo stanziato può ben pagare la casa di cui ascolto vagamente la descrizione.
Scortato da due finanzieri, Jack Agatu Evaristo mette il culo su un aereo con scalo ad Addis Abeba della Emirates dopo appena 12 ore che parlo con il GUP.
C’è un nome che ritorna. Chi mi vende l’appartamento è un certo Dottor Giacomo Sarco. Ci metterò settimane e alcuni caffè per ricordarmi che conosco già Giacomo Sarco. La lettera per il rilascio del visto all’ambasciata italiana per Evaristo è scritta e firmata da lui.
In fede, Giacomo Sarco dichiara che si prenderà carico di ogni necessità del dottor Agatu Evaristo durante tutti i giorni della sua permanenza a Palermo.
Etc. etc., sì, certo. Saremo vicini, vicinissimi di casa.

3.

Ha trent’anni ma è ancora un piacere vedere Annabelle camminare in gonna. Figlia minore di padre francese e madre siciliana, dieci anni fa — una qualche spinta atavica al ritorno suppongo — Annabelle decise di trasferirsi a Palermo. Come alcuni stranieri europei in città era dotata della misteriosa capacità di non lavorare per pagarsi un tetto e i divertimenti. La guardo ora, nel mio appartamento ed è la donna più bella che la mia posizione sociale e bellezza mi ha permesso di ottenere. Certo, lo so, è sfiorita già e velocemente. Usata e molto, la bellezza unica, quasi da modella di Annabelle a vent’anni è passata, drenata neanche troppo lentamente da una serie rilevante di fidanzati e amanti di ogni tipo umano ed età. Non le posso davvero perdonare di aver donato bellezza e scopato con mezza Palermo, di non avermi aspettato senza conoscermi ma non importa. Anche per lei è il momento di entrare nel mondo borghese di questa città che ha tanto tenacemente voluto e io sono il suo accesso. La sento fare una lista dei mobili che vuole costruire mentre io guardo il minuscolo giardinetto di casa mia. «Potremmo prendere un cane, un piccolo cucciolo innocente» mi dice. Mentre ancora dormiamo su materassi senza rete, in una casa che è enorme solo perché non abbiamo lo straccio di un mobile, l’accontento. Un labrador marrone appena svezzato; lo chiamo Nozik.

Da più di un mese la macchina mi ha abbandonato e in ogni caso non potrei coprire il rinnovo dell’assicurazione. Nell’attesa che un cliente si presenti e decida di pagarmi con uno scooterone serio da giovane avvocato — tra i nuovi desideri c’è uno scafandro della Tucano in cui infilarsi in caso di pioggia — non mi rimane che andare e tornare dallo studio a casa a piedi. Diciamocelo, oltre l’inquinamento, aldilà del petrolio e delle conseguenze sulla pace del mondo, essere costretti a camminare a piedi è una merda, un segreto infamante. Il volto di chi non ha una macchina è triste e sotto la superficie non può non esserci del serio e nero risentimento per il mondo. Sto anche tornando invisibile e lo sono davvero. Lo studio Mignosi è sotto sfratto, le segretarie, beate loro, sono scappate al terzo stipendio non pagato. La mia amorevole casa si trova vicino via Galileo Galilei, proprio al centro di un quadrato in cui, tra palazzoni e palazzine, insieme a ruderi di stalle in arenaria gialla e resti di antichi bagli di davvero altre epoche, sopravvive la campagna. Già entrando nel mio isolato lo vedo, da lontano. L’appartamento dei Sarco, riduttivo definirlo tale dato che sembra occupare l’intero piano terra del palazzo, è dotato di un grandissimo giardino. Ogni giorno mi sembra che dalla finestra le buganvillee e i rampicanti crescano, forti, colorati, indifferenti allo smog e a una soffocante — ma molto utile se tocca andare a piedi — siccità invernale. Dietro quel muro di verde scorgo un nuovissimo Porsche Cayenne. Rientro a casa e Nozik mi viene incontro, scodinzola, so che mi ama. Subito si siede, il chiaro segnale che vuole essere portato in giro a fare i bisogni. «Dov’è la mamma?» gli chiedo. Nozik si guarda intorno, non sa che a quell’ora Annabelle è in palestra, la mia quasi moglie e i suoi costosi impegni per rimediare alla cellulite che incombe, i muscoli che rilasciano energia che hanno accumulato negli anni tonici, sodi, della bellezza da spendere. Poggio la borsa e prendo collare e guinzaglio. Nozik mi segue scodinzolando.

Solo chi ha un labrador può capirmi. Di sicuro non sono cani aggressivi, Nozik non è territoriale per niente. Dei ladri in casa verrebbero accolti non con un ringhio ma con chiare richieste d’affetto. Non abbaiano ai cani che passano vicino alla recinzione. Sono cani molto golosi, perfetti per i bambini. Nozik però, in certe passeggiate serali, non faceva altro che ringhiare in direzione di casa Sarco, un’azione proprio contro natura per un cane della sua razza e oltre la sua funzione principale, quindi segreta, che mi ha portato a “farmi il cane”. Ecco, vedete, sto difendendo un certo ragazzo, studente universitario di diciannove anni. Sì, proprio lui. Il mio cliente è quel ragazzo integerrimo e di davvero ottima famiglia, quoziente intellettivo altissimo, che sta per andare sotto processo per pedofilia in primo grado. La notizia è andata anche sulla stampa nazionale: il famoso giovane a cui è stato rubato un ipad che, ritrovato in un blitz della polizia in casa di un pluripregiudicato marocchino, si è scoperto pieno di video e foto pedopornografiche. Ora solo certi uomini alla mia età possono capirlo, ecco. Come materiale probatorio ho visto, e più volte, qualche decina di giga di filmati amatoriali in cui le ragazzine della Palermo bene in questa contemporaneità — liceali! —, semplicemente, fanno porno. Roba serissima, il sogno di ogni trentenne è trovarsi lì in mezzo. La carriera del mio assistito è stata stroncata proprio mentre stava diventando sempre più bravo con la sua Go-Pro e il suo parco attrici e attori si allargava ancora. Alcune delle ragazze nei video — ho sperimentato ma davvero non mi sono mai interessati i ragazzi — sono davvero e semplicemente bellissime. Così immagino l’Annabelle che non ho conosciuto e potuto scopare da fresca e così è Adele, la figlia del Dottor Sarco. Mentre cammino con Nozik che adora leccare il piscio di altri cani, spero d’incontrare Adele. Non c’è scusa migliore del cane per attaccare bottone e Nozik è il cane perfetto. In tre mesi, non ho davvero la disciplina e il metodo del maniaco, Nozik però mi è servito solo per parlare con i vicini e non a farmi un’amante liceale. L’argomento, il mio interesse è chiaramente simile e collaterale a quello dell’intero vicinato, è sempre, in maniera spontanea, la famiglia Sarco.

4.

La signora del piano di sopra, la vedova Alberti, è una miniera d’informazioni sicuramente viziate da un Alzheimer al primo stadio. La incontro spesso al supermercato dove mi racconta, con minime variazioni, che gli alberi e le foglie nel giardino dei Sarco si muovono, di notte, in quelle notti senza un filo di vento che ormai sono in tutte le stagioni palermitane. Altri, i miei vicini uomini, mi hanno fornito invece delle cronostorie davvero dettagliate dei Suv del Dottor Sarco — sembra con mia grande invidia che cambi un macchinone ogni pochi mesi — e della sua capacità in pochi anni di acquistare tutti gli appartamenti con giardino del piano terra nel suo palazzo. Il barbiere poi, un ragazzotto ignorante come la merda con una precedente vita come animatore turistico, mi raccontò delle telefonate di Sarco, sempre in lingue sconosciute, ecco, esotiche anche per chi come il barbiere poteva scopare solo aguzzando il proprio ingegno linguistico. Brevi conversazioni da numeri con prefissi sconosciuti, attento è l’occhio del barbiere, in cui Sarco sembrava abbaiare ordini nelle lingue più disparate, gli imperativi della lingua dei soldi e del potere del resto li immagino tutti molto simili come le parole babbo e mamma. Ho sentito anche una storia da una persona a cui tengo, una di cui davvero non posso dare dettagli. Mi ha parlato di Sarco come di un uomo venuto dal nulla di un quartiere periferico, di come in pochi anni abbia comprato alcune decine di appartamenti nel centro storico, tutti acquistati senza trattare sul prezzo, cosa che anche a chi non è nel settore farebbe parlare di riciclaggio. Appartamenti poi affittati a immigrati africani, tutti con contratti regolari e regolari erano anche i contratti d’assunzione per le collaboratrici domestiche di casa Sarco. Nomi di donne che venivano cambianti e rinnovati con la frequenza con cui Sarco sembra cambiare macchina. Non ho mai visto qualcosa camminare nel buio, tra i fiori del giardino di casa Sarco. Ho invece sentito dei tremori, piccoli terremoti mai annunciati dagli status su Facebook o dalla cronaca locale e sì, quando la terra in questa via trema capita che Nozik davvero non voglia stare in giardino.

Puoi difendere tutti i mafiosi che vuoi ma se patrocini un pedofilo che tra le altre cose ha ripreso le figlie di certi potenti ecco che puoi ritrovarti un paria. Era con questi pensieri, me Epimeteo delle cause perse, che, durante una passeggiata pomeridiana con Nozik e dopo un certo sesso insoddisfacente con Annabelle, indecisa se lanciarsi in lezioni private di francese per tirare su dei soldi, mi imbattei nel seno sodo di Adele e i suoi sedici anni. Seduta in un bar e intenta a parlare con quello che spero sia solo un suo amico, un metallaro la cui rada barba non riusciva davvero a coprire i segni di un’acne purulenta, capelli grassi che noto anche seduto lontano, capelli che dovrebbero essere respingenti pure per una teenager 10 volte il peso della bellissima Adele. Nozik sta tranquillo mentre mangia un rollò con wurstel, il pezzo di rosticceria di cui è davvero ghiotto, e io intanto mi sintonizzo sulla conversazione di Adele e il suo amico. Sono attenti a parlare piano ma il loro sforzo non è superiore al mio che li ascolto, in più i rumori della città mi sono d’aiuto, sento solo le loro voci. In ogni caso, tra i miei talenti acquisiti, so leggere le labbra.

Sentito abbastanza, spalanco la porta dello studio Mignosi, fuori orario. Spero di non varcarla più. Nozik guaisce, l’ho letteralmente trascinato per un paio di chilometri fino allo studio. Non mi interessa il suo pianto da cucciolo come non mi interessavano gli sguardi dei passanti carichi di disprezzo per il mio comportamento con il cane. Lo lascio andare, il computer sulla mia scrivania è ancora acceso e sì, non hanno ancora neanche staccato internet.

Cerco il nome che ho sentito, Annibale Arnone. Non trovo nulla da nessuna a parte. La Asmodeo invece è citata in alcuni articoli di sconosciuti giornali canadesi e statunitensi. In breve accennano a qualcosa, un grave incidente nella sede di Palermo di cui però non trovo nulla sulla stampa italiana, e a un’indagine della RCMP — le giubbe rosse canadesi pfff — su riciclaggio e traffico di materiali sottoposti a embargo ONU. Se come dice Adele suo padre è, o meglio era, socio di Arnone e Arnone è la Asmodeo, capisco le difficoltà del budget familiare di casa Sarco. Questo mi è chiaro, molto. Adele sembra assai sicura, le ho sentito riepilogare all’amico le questioni societarie, chiaro quanto strano sentire una ragazzina parlare di trust, investimenti ombra e via discorrendo. Non è chiaro per niente il seguito, l’amico, quel ragazzino brufoloso che per tutta la conversazione cerca di convincerla ad andare via, subito. Dal bar direttamente alla sua cameretta. Fuggire, subito. Le dice che le cameriere che vanno e vengono, spariscono senza incassare l’ultimo stipendio, “questo sei tu, Adele cazzo, che me lo hai raccontato”, quelle che in gran numero si alternano nella piccola dépendance nel giardino, le deboli immigrate messe in regola, con cui il padre parla nella loro lingua natia, non basteranno. “Non basteranno più Adele. Vorrà qualcosa di più” ho letto sulle labbra del ragazzo. Nozik piscia in un angolo del mio ufficio, mi ama ancora, è solo un cane. Si lecca delle zampe che devono essere doloranti e sono doloranti perché comunque devo garantire a lui e a me un futuro grandioso. Soffre, soffra, soffro anche io. Prendo il faldone di Evaristo, i suoi occhi da carcerato vergine che ricordo benissimo. Cerco tra i miei appunti anche se non mi servirebbe, ho ancora una memoria incredibile. Lette le labbra del giovane metallaro, trovo e rileggo nei miei appunti e collego: Tikoloshi, il demonietto dei campi dell’Africa nera.

Apro una busta dalla Questura che è poi risultata inutile. Tra le foto nel fascicolo della scientifica, quelle fatte nell’appartamento alla Zisa in cui venne arrestato il buon Evaristo, lo trovo e lo vedo. È su una mensola di una vecchia libreria, Jack Agatu Evaristo è stato chiamato per recuperare quella statuetta, poi sì, qualcuno deve aver cambiato idea e lo hanno fatto arrestare. Non so, non mi riguarda. So però dov’è un’altra di queste statuine nere, il corpo scimmiesco, piccoli occhi che sembrano più neri dell’ebano in cui sono intagliati, il lungo pene sinuoso, lunghissimo e storto. Uno strumento d’esplorazione e possibilità, non un portafortuna. Riprendo la foto della polizia, la guardo attentamente.
È un’altra statuina, questo demone mi guarda ma lo fa da un’altra casa, una più bella. Immagino mi guardi dal lussuoso salone dei Sarco.

Nozik si accuccia sotto il letto, passata la mezzanotte, Annabelle dorme quasi, già. Io guardo dalla finestra, dall’altra parte della strada, dai Sarco, le palme ornamentali e il rigoglioso muro verde non si muovono. Mi  abbandono al divano, impunemente mi masturbo con la serie giusta, nella puntata giusta, non ho paura di essere interrotto. C’è Eva Green che si concede al Diavolo. Era già dentro di lei ma adesso è sul letto, nuda, la madre guarda il corpo della figlia che viene sbattuto da un’entità invisibile. Domani non andrò a lavorare, mi merito dei sogni e di capire. Dopo tutto quello che ho scoperto sul piccolo demone dall’altra parte della strada se non avrò un incubo lo prenderò come un segno.

Troppe bambine.
Comincia tutto in campagna, si coltivano i campi per allontanarsi dagli spiriti delle foreste, dalla quasi certa fame della caccia. Non è facile, il buon raccolto è fortuna, l’alea degli eventi, la certezza di un lavoro che è duro o che non c’è nell’attesa fino al raccolto. Forse era meglio affrontare gli spiriti delle foreste.
Con i raccolti buoni la prole sopravvive, ci sono le femmine e crescono. In quelli di magra spariscono, è la necessità che fa più danni, prende più donne e uomini.
Poi è un ricordo, gli occhi delle scimmie che scrutano tra le chiome, forse è qualcosa che ha seguito l’uomo che ora è contadino. Il piccolo spirito offre il suo aiuto, ha capito, sa quanto è duro domare la terra, estrarre i minerali dalla roccia. È terribile, affidarsi alla fortuna che diviene.
«Ti aiuto» sussurra, nei campi.

L’uomo gli è grato, quando sogna dello spiritello dei campi lo vede. Le braccia poderose, la testa di scimmia. Lo raffigura e sul limitare del campo ora rigoglioso comincia a offrire un po’ di latte, una ciotola di legno con dell’acqua fresca. Vuole addomesticare il buon spiritello che di notte, bevuta l’acqua e accettata l’offerta di latte, lavora per l’uomo nel campo. Lo nutre, come fa con il suo cane marrone. E così come il suo cane ma invisibile si avvicina alla capanna; il miglio sempre meno selvatico cresce, l’uomo è felice, i suoi figli e le sue figlie crescono belli e forti. Ma il buon spirito dai piccoli occhi di notte non è come il cane ma come l’uomo. Si assomigliano, entrambi conoscono la foresta, forse sono andati via insieme. Non basta il latte, lavora duro, nei campi, mentre tutti dormono, invisibile a ogni sorso d’acqua.
Presto il latte non basta, e il contadino avrebbe dovuto saperlo.
Sono il Tikolosh. Come il contadino voglio di più, mi avvicino ai giacigli delle donne, le bambine che il contadino comunque avrebbe lasciato morire di fame senza il raccolto.
Sono benevolo, non serve affidarsi ai capricci della fortuna.
Mi conosci.
Dammi le donne. Sazia la mia e non dovrai temere la fame.


Quando mi sveglio è quasi mattina, l’acqua nel bicchiere non trema.

5.

Attendo in casa mentre Annabelle è sempre più spesso fuori. Ha successo nel trovare studenti, soprattutto giovani uomini. La paga oraria non è argomento di conversazione perché chiaramente ridicola, al ribasso e di molto. Io ho un’altra occupazione: i Sarco e i loro movimenti dentro e fuori il palazzo. Interpreto il nervosismo del padre, l’ansia di uscire da quella casa di madre e figlia. Le donne tornano a casa di sera, con un passo che si trascina, di rassegnazione. Nozik si rifiuta di uscire in quella sottospecie di giardino che abbiamo io e Annabelle. Nozik mi serve, sono certo che nella notte giusta sarà lui ad avvisarmi. Lo fa a tre giorni dall’arrivo di due nuove donne di servizio di colore. Un taxi le scarica di fronte alla portineria dei Sarco. Non le vedo più uscire ma so che vanno a dormire ogni notte verso le 22 nella dependance. La notte in cui le luci della dependance non si accendono, Nozik non fa altro che ringhiare a me e verso il giardino. So che ringhia verso il giardino dei Sarco.
Mi sono preparato. Vivo da recluso da giorni eppure mi lavo attentamente, con la pietra pomice per eliminare il tessuto epiteliale in eccesso, lo shampoo due volte al giorno. Non voglio dover giustificare miei capelli sparsi nella casa di chi mi ha venduto la mia. Metto delle scarpe nuove, un cesso di scarpini comprati da H&M, comuni, posso buttarle via senza problemi. Sono anche di due misure più grandi, travisarmi è qualcosa che so fare. Nozik smette di ringhiare, so che potrebbe continuare ancora ma smette. Vedo Sarco uscire dal cancello della portineria, lo blocca, deve trascinare delle valigie. Vestito di nero ma io lo vedo, lo aspettavo. Sono diretto al palazzo di fronte e già Sarco è via sul suo Suv, fa sentire il turbo. Attraverso e vado verso il cancello mentre ancora sento l’auto di Sarco allontanarsi.

Ho sentito delle storie su Sarco e il suo socio, meglio, le ho cercate. Adesso la gente parla, colleghi diciamo. Sono uno fidato, lo sembro, sembro del gruppo, mi riconoscono. Possono parlarmi del passato in attesa che io riveli qualcosa del mio studio. La gente giusta adesso può parlare, raccontano di una camera della tortura nel centro storico, di enormi ricchezze che non provengono dalla droga, di ragazze che non spariscono davvero. Parlano di piccoli imperi coloniali nelle paludi di paesi lontani, intoccabili anche ai tanti ribelli e guerriglieri di quei paesi arretrati, accennano a servizi segreti, a grandi vecchi che vengono sostituiti. Storie che non mi interessano: la storia del demone che è invisibile e rende ricchi è una che capisco invece benissimo. Entro nell’appartamento di Sarco, non sento niente e voglio vedere Adele che è bella e giovane come lo era la mia Annabelle. Adele che non è innocente come lo sono io.

Il corridoio è lungo e buio quasi ma ho visto la ragazza, quando un corpo è così lacerato è come vederlo vestito. Nozik abbaia, lo sento, quasi strilla, latra come un cane più grande. Tanto volevo andare via, ho un desiderio ma non vale tanto da farmi trovare qua e finire in Questura. Non ho risposte da dare, risposte che qualcuno vorrebbe comunque sentire. Finirei per parlare di me e della fortuna. Giro il secondo angolo del corridoio, passo davanti alla camera da letto padronale dove Donna Sarco è spezzata.
Torno sui miei passi diretto verso l’ingresso. Non sento sirene, non sento niente. Il silenzio è brutto quando arriva ma rabbrividisco appena si interrompe. Battere, sul legno. Lo vedo, picchettare sul parquet, lasciato sul pavimento che ho calpestato poco prima. Mi guarda la statuetta mentre non accenna a smettere di battere. C’è appena un momento in cui mi sento bloccato, incapace di usare le gambe. Quella sensazione di fronte a qualcuno che vuole derubarci, la ragazzina immobile molestata sull’autobus, il genitore che ti picchia quando sei già più forte di lui; il comune mortale è fermo, una risposta possibile è niente.

Attraverso la strada, Nozik ha di nuovo smesso di abbaiare. La strada è sgombra, non un filo di vento di scirocco. Infilo la chiave per entrare in casa mia. No, assolutamente, non era Giacomo Sarco che mi guardava, gli occhi neri, un sorriso malato, appena nascosto tra le foglie del suo giardino.

6.

Le settimane successive sono per me piene di eventi, quando le cose accadono, quando si è coinvolti, il tempo è pieno. Diamo via Nozik, gli cambieranno nome e qualcuno finalmente gli metterà quel microchip che andava messo. Non è facile, due volte ha provato a mordermi, forse gli ho perforato un timpano. Annabelle non la prende bene, non ne è contenta ma dura poco: le chiedo di sposarci. Il giovane studente universitario che filmava ragazzini e ragazzine accetta il mio consiglio. Rito abbreviato e sconto di pena. Finisco per 4 secondi sulla televisione nazionale, per me non è che un successo e comunque troppi in città lo volevano vedere in carcere. Ho il sospetto che il mio assistito non arriverà all’appello, tergiverso sulla richiesta di trasferimento in un carcere del nord Italia. Nessuno mi ha chiesto niente ma sarò ben lieto di rinfacciare il favore fatto. Per qualcuno che entra in carcere altri ne escono. Non i miei colleghi di studio ma proprio l’avvocato Mignosi. Mi invita a casa sua dove si trova ai domiciliari. Parliamo di cazzate, lo sorprendo quando tiro fuori dalla borsa un grosso block notes con cui comunichiamo per iscritto, di cose serie. Rifiuto praticamente tutti i suoi consigli e tutti i suoi ordini camuffati da suggerimenti. Mignosi è bruciato ma ha bisogno di me. Brucia ma il passaggio di consegne arriva comunque, nuovi clienti in rappresentanza dei vecchi cominciano a cercarmi. Io non farò gli stessi errori dei miei colleghi di studio e sicuramente non ripeterò quelli dell’avvocato Mignosi. Imparo in fretta, come sempre, sono nella posizione di farmene una.

7.

Dovrei anche parlare di quante poche sirene vidi di fronte casa Sarco due giorni dopo la mia intrusione. Uscendo ho richiuso la porta corazzata. Un via vai discreto, troppo per alcuni omicidi così brutali, di quelli che riconosco come poliziotti in borghese ma che non ho mai visto neanche di sfuggita nei miei pellegrinaggi in tribunale come in questura. Il quartiere ha tutta una serie di storie sulla sparizione della famiglia Sarco, tutti racconti cui mi limito ad annuire, interessato. Nessuno chiede una mia versione, sono vestito meglio ma sono ancora invisibile. Chiacchiere di quartiere ma davvero nessuna notizia sulla stampa. Non so dopo quante settimane, non sono bravo a contare il tempo o alcun numero senza il simbolo dell’euro, ma poi credo di riconoscere Sarco tra le due vittime italiane delle sei occidentali dell’ennesimo attacco terroristico di Al-Shabaab in un albergo di Nairobi. Al telegiornale vengono mostrate le foto ma viene intervistata solo la famiglia dell’altra vittima. Un collega mi propone di comprare un’auto, una figa, quel tipo di macchina che un giovane vuole. Gran prezzo di sicuro, anche un bel Suv, da comprare tranquillo in una concessionaria sotto amministrazione giudiziaria. Rifiuto, tra un po’ potrò prendermi l’auto che voglio senza accettare favori che potrebbero portarmi guai.
Annabelle sta molto a casa negli ultimi giorni, le cose tra di noi, quel protocollo della vita con un altro essere umano, vanno sempre meglio, forse si sta solo stabilizzando. Ha deciso di coltivare un orto, tra un po’ di tempo e con la giusta cura scoprirò cosa ha piantato. Mi dice che non darà lezioni di francese per un altro po’ di tempo, dice di essere incinta. L’abbraccio, subito, me lo aspettavo quindi nessun attimo di panico da parte mia e Annabelle ne è felice, rassicurata.

Torno a casa in una stranamente fresca serata di giugno. Il nostra appartamento ormai sembra un bell’appartamento, pieno, colorato, ci siamo lasciati dietro i vuoti delle abitazioni da studenti, le provvisorietà di chi ha tempo e non ha soldi. Annabelle e la sua pancia ormai evidente anche con il camicione che indossa mi vengono incontro in salotto. «Scusami stavo facendo ordine nello sgabuzzino» dice tenendo tra le braccia la statuetta, «cos’è questa… cosa? è così esotica…», «è un regalo amore» le dico mentre sorrido, «un portafortuna» aggiungo, mentre la bacio e l’abbraccio.
Porta in grembo una bambina.