Amos era pronto. Aveva la tipica predisposizione al sesso, ma lasciò che fosse la macchina a scegliere.
Maschera. Collegamenti. Allucinogeno. Sbiadire in nero.
Si trovava nello spiazzale della ferrovia e camminava tranquillo. Non vi era nulla di diverso da una normale serata di vagabondaggio.
L’arrivo di un gruppo di donne accese la curiosità. C’era anche Marcy, una sua vecchia amica a cui era molto legato e di cui  aveva sempre apprezzato il viso pulito dagli occhi enormi.
Non era la Marcy che aveva visto le ultime volte, ma quella conosciuta poco più che ventenne in università ed era contento di rivederla.
I saluti calorosi erano un sintomo, i sorrisi di circostanza.
Le frasi fluivano veloci e gli abbracci amichevoli iniziarono a trasbordare. Senza volerlo iniziò a baciarla con languore. Le mani si muovevano, le parole inciampavano fra le lingue. Stava già scendendo con le labbra su quel collo sottile e da lì all’altezza della clavicola, mangiandone il profumo.
Ripercorse la scia in senso inverso per riportarsi al viso e infine si scostò leggermente per guidare le mani tra i riccioli ribelli della ragazza.
«Cazzo!»
Un viso diverso su quel corpo, come in un montaggio fatto male.
Una sensazione inconsueta di disgusto.
Rivedeva la luce nera riflettente. Ma l’eccitazione permaneva.
Doveva ricominciare daccapo. Voleva cominciare subito. Cominciare con quello che aveva interrotto.
«Mi sono staccato. Non startene lì fermo. Dammi un altro allucinogeno.»
E già partiva per il suo nuovo viaggio: una mulatta dagli abiti aderenti e succinti, con una veste grigia lucente e tacchi rossi alti come trampoli.
Ma delle interferenze fastidiose, sonore e visive, rendevano il tutto irreale e disgustoso.
Amos si tolse maschera e collegamenti.
«Ti sei staccato completamente.»
«Sì. Non mi era mai capitato.»
«Che ti è successo?»
«Stavo baciando una, mi sono scostato e sul suo corpo c’era la faccia di un’altra.»
«Emozione a metà: cercare un’emozione ed esserne impediti da un’altra nascosta.»
«Ne sai qualcos’altro?»
«No, ma stai contento: questa seduta te la abbuono.»
Amos si alzò. Il viso della sua ex moglie gli era ricomparso all’improvviso appropriandosi dell’allucinazione e del corpo di un’altra donna.
Si sforzava di ricordare se nei giorni precedenti vi fosse stato un segno, qualcosa di diverso da interpretare, ma non trovò nulla se non un sogno.
Era affacciato alla finestra della sua vecchia casa in città e dal cielo grigio vide un filo bianco stendersi lentamente.
Vi scese un baco. Era grande quanto un essere umano e si srotolò completamente nel cielo.
Ne uscì un angelo. Un angelo donna, bionda con un viso dolce e una pelle chiara. Gli volò incontro posandosi sulle inferriate, ma una volta in casa era mutata. Dal suo biondo e dalla sua pelle candida ne era uscita una donna di colore, grassa, di quelle che ti aspetti di trovare in un ufficio con il proprio lavoro da segretaria scrupolosa. Non era né bella né attraente. Ma Amos la prese e la sbatté sul letto, toccandola. L’espressione facciale della donna non mutava.
Iniziò a scoparla, ma lei era immobile senza traccia di godimento.
Di solito non ricordava nessun sogno, questo l’aveva ricordato perché gli aveva reso chiara la necessità di allucinarsi per sopperire al bisogno fisico.
E per farlo si era dovuto anche recare qualche isolato più in là del suo quartiere che comunque, dopo pochi minuti di cammino, sarebbe prontamente ricomparso.
Era una serie di costruzioni incomplete e diroccate: si pensava di insediarvi un’importante city commerciale e sportiva. Ma il progetto fallì miseramente e lo spiazzale, ai piedi di un piccolo colle rialzato, mutò il suo viso in un paesaggio inorganico di architetture sperimentali non concluse.
Piscine allo scoperto. Senza vasche.
Grovigli di trampolini incrociati.
Strutture a scivolo.
Travi d’acciaio. E scheletri, scheletri di grattacieli.
I trampolini, le travi, la city, il colle, la ferrovia, il vento.
Quel vento fenomeno dei conglomerati urbani, dove i grattacieli, ergendosi, maestosi obelischi verticali, lo innalzano sotto le nuvole fino al momento in cui non torna, indisturbato, rasente al suolo. Scatenandosi in violente raffiche ascendenti.
Fu un giorno che un uomo pensò a quel posto, gettandosi. Ma a furia del vento, non riusciva a schiantarsi saltellando da un punto all’altro in balia delle correnti. Fu il primo, dopo di lui, gli altri: gli uomini volanti.
Abitanti del rione, che senza niente al mondo, per denaro, o anche solo per gioco, si lanciavano quale attrattiva su quei pochi locali sorti attorno allo spiazzale.
Amos trovò il suo amico Ivan ai piedi della collinetta intento a scrutare il palazzo della terra e dell’acqua, la costruzione dove i volanti si gettavano. Gli avrebbe voluto parlare dell’emozione a metà e del sogno dell’angelo, ma con Ivan, che era un volante reclutato, si entrava gratis in ogni locale ed era meglio approfittarne prima che iniziasse il suo lavoro.
«Non c’è abbastanza vento.»
Contemplarono ancora il palazzo con il suo telaio metallico continuo e vuoto che s’impennava verso l’alto, senza vetrate o pannelli, con dei trampolini che sembravano appesi al nulla, cascate a strapiombo e vasche collegate da scivoli come corsi di torrenti.
Infine si diressero al “Marasma”, il locale più grosso della zona, che, con il suo tetto di vetro e i prezzi modici, era il loro punto di riferimento di ogni notte.
Vicino all’entrata i ragazzini lanciavano spiccioli a un barbone.
«Adesso te ne diamo di più ma devi prenderli al volo.»
Il vecchio si contorceva fintamente per compiacerli.
Gli chiesero, nel prosieguo del gioco, di prenderle con la bocca, ma la terza moneta lanciata si era fermata in gola. Il barbone iniziò a sputare e tossire.
«Cazzo, questo sta male.»
«Dai, fa’ qualcosa.»
«Puzza troppo, cristo!»
Ivan si mosse verso il vecchio, Amos lo seguì. Inizialmente lo misero a testa in giù, ma vedendo che non sortiva effetto, Amos lo riportò in piedi iniziandogli a pressare il torace. La moneta fuoriuscì dopo vari tentativi.
Il vecchio tossiva ancora, ma era ormai fuori pericolo. I ragazzi non erano più disposti a giocare. Gli lanciarono l’ultimo nichelino mentre lui cercava di trattenerli chiedendone ancora. Amos, incurante, era già nel locale.
Tra la gente seduta ai tavolini, intravide una sua vecchia conoscenza: un’avvocatessa dai tratti orientali, alta, seni a punta e gusti non complicati in materia di uomini. Era una delle poche, negli ultimi anni, con cui aveva fatto sesso senza pagare ed era da fin troppo tempo che non la incrociava.
Si avvicinò al tavolino, sedendosi, lei gli lanciò un’occhiata presaga di quello che sarebbe potuto accadere. Lui iniziò a carezzare i capelli nel profumo che si spandeva.
Uno sguardo stirato e un’occhiataccia, risposero al primo tono melenso. Lei si volse a guardare altrove: non era la serata giusta. Amos continuò ad accarezzare per inerzia ma quando si accorse del motivo di quella repentina perdita d’interesse si diresse immediatamente verso il bancone del bar.
Il vecchio gli aveva trasmesso il suo fetore e ora puzzava anche lui.
L’unica buona azione dopo anni gli aveva rovinato la serata e Ivan si era dileguato fra i tavoli.
«Un whisky.»
Guardava ogni donna nella sala, ma sapeva di non poterne avere nessuna. La deriva degli ultimi anni era divenuta più fonda, un viaggio incessante fra dormite sui marciapiedi e vomito nei cessi dei locali.
Il barbone che l’aveva insudiciato, come altri, dormiva nello stesso grattacielo sventrato dove Amos aveva una tenda. Era stato un manovale prima di finire in strada ed era menomato a una gamba per un furto malriuscito. Le sue giornate ruotavano attorno all’elemosina e al vino. Non faceva altro, tranne il venire picchiato per essere derubato o per diletto.
Amos chiese dell’altro whisky, ma, come il primo, anche questo era scadente e l’unico piacere era vederlo sbiancare sotto il fascio di luce in direzione ortostatica.
Una donna gli si era avvicinata cautamente. Attese un po’ prima di sedersi di fianco e parlargli. Lui la notò all’ultimo momento, ma l’umore era ormai un buco nero e avrebbe voluto soltanto restare solo.
«Amos… Amos… ciao.»
Doveva avere una trentina d’anni, capelli neri lunghi e un viso disegnato in un’eleganza naturale.
«Ti cercavo, sono venuta anche ieri. Sei molto cambiato…»
L’aveva chiamato per nome e lui non ricordava di averla mai vista. A questo si aggiunse la consapevolezza di emanare un odore pessimo.
«Sai, tutti ti stanno copiando in città…»
La sua vita era confinata tra il quartiere della vecchia ferrovia e qualche strada limitrofa, evitava volutamente il centro: troppa polizia.
«Come sei finito qui?»
Era difficile parlare con una persona che afferma di conoscerti mentre tu non sai chi sia, soprattutto quando questa persona ha molta voglia di farlo e fa domande e affermazioni dirette.
«Potevi ricostruirti una vita ovunque.»
I respiri erano lunghi. Lei iniziò a elencare: ufficio, colleghi, un weekend in montagna, il loro primo incontro.
Amos, in qualche nome percepiva uno sprazzo ma perlopiù era buio. Probabilmente c’era stato anche qualcosa fra loro due e cercava almeno di sforzarsi nel ricordare quel corpo, che scrutava nelle pieghe della maglia viola attillata.
«Ma ora cosa fai per vivere?»
Amos farfugliava, immaginava potesse essere semplice capire che viveva di espedienti.
Lei continuava nei suoi racconti, chiedeva conferme, si stupiva, divagava. Lui ascoltava un pezzo della sua vita seppellito in chissà quale angolo e, se chiamato in causa, rispondeva a monosillabi.
Quell’ufficio, almeno, gli era venuto in mente, ma della donna continuava a non ricordare nulla, nonostante quel corpo fosse lì a dissipare calore.
Iniziò a pensare che poteva anche aver inventato tutto e fingeva di conoscerlo solo per il piacere di umiliarlo.
Lasciò il whisky sostare in bocca il più possibile, per bruciargli. Quando lo ingoiò definitivamente era pronto:
«Greta, scusami, non mi ricordo come ti chiami, non mi ricordo chi sei e, soprattutto, non so nemmeno chi sono io.»
Greta si alzò dallo sgabello, con la tristezza negli occhi arrossati per uno scopo inutile e si diresse verso l’uscita, mentre Amos sostava contemplativo il bicchiere ormai vuoto.
Si sovrappose il rumore del locale all’essenza del profumo e all’aria attorno alle parole di rossetto.
Amos percepì un fondo di vita dentro di sé. Qualcosa lo riuniva ancora a una donna: le loro difficoltà, la loro unione, la loro sofferenza, la loro vita precedente, la loro solitudine, il loro amore.
Avrebbe dovuto trattenerla, poteva essere la sua ultima possibilità, ma l’unica cosa che si decise a fare era ripetere il suo nome per evitare di dimenticarlo.

Fuori il vento si era alzato e faceva freddo. Ammassati agli angoli della strada, in rifugi di stracci e cartone, un esercito di uomini senza sogni, appesi all’unica pulsione di una vita che vuole continuare anche quando diventa negazione.
Amos pensò a se stesso come tale.
Da quel giorno, non era più tornato sul palazzo della terra e dell’acqua. Quel giorno in cui la folla ai suoi piedi gli gridava qualcosa di indefinito. Quel giorno in cui sfidò il vuoto e il vento e si portò sul terreno con qualche livido, ma integro, nella più sensazionale impresa che il quartiere della vecchia ferrovia avesse mai visto.
Pensava che solo uno shock forte potesse fargli ritornare la memoria. Ma era un’attenuante.
Doveva risalire la collinetta, prima di affrontare le scale del palazzo. Il percorso buio seminava rantoli di luce e il rumore, fra vento e grida, applausi e colpi alle protezioni artificiali, non era che un gomitolo dallo stesso colore. Avrebbe preso il percorso più difficile, sul trampolino più alto dove nessun volante si arrischiava.
Forse Greta avrebbe potuto vederlo, ma non sarebbe stato rilevante.
Così come le travi che si ergevano fra i vuoti delle costruzioni e i vuoti di quello che avrebbe potuto e dovuto essere e non è stato.
Quello che si pensa di voler essere e non si è. Questo e quello, che era lo spiazzale.
Il vento vorticava in qualche anfratto e la cima era ormai a pochi passi, con il paesaggio spettrale di grattacieli senza vetrate e pilastri.
Quella distesa di cemento, acciaio e mattoni era vissuta in tante sue notti e ora non era che un circo.
Ma la raffica giusta stava arrivando.
La si inizia a sentire in lontananza. Con il soffio che parla. Che sussurra la propria storia. La tua storia. Bambino giovane uomo. Il tuo nome. Gli sguardi acerbi di una ragazza che ti sorride, i primi fuochi di un pugno sul viso, le complicanze di una notte sopra le righe.
La neve cadeva in uno chalet di montagna. Sì, c’era Greta, come sua moglie, a prender il sole sugli scogli e a dirgli che l’avrebbe amato per sempre. Marcy gli passava in aula la soluzione di una prova, mentre lui, in preda a uno scoramento post-adolescenziale, spegneva e accendeva i fari a notte fonda su una strada solitaria di campagna.
Le ore interminabili in ufficio pesavano tutte addosso, nelle parole, nei silenzi, nei sorrisi, nei disegni, nei colori delle piogge battenti: case, facciate, pluviali, tetti, montanti, pilastri, palazzi.
L’universo creato, imposto, sospirato. Fra cielo e terra. Vento e vuoto. Orgasmo e paura.
Il freddo in faccia fra le braccia del vento. Come la prima volta. Come l’ultima. Con la luna che guarda. La notte. Il volo.
E l’aria in comunione:
Si srotola un baco dalle nuvole.
Il volto è lo stesso: e lo chiama con quel nome.