Venerdì, il giorno dei liberti e dei militi ignoti. Prima di andare a smaltire le fatiche ebdomadarie, vi propongo di riflettere su una corrispondenza (Erodoto dice che era usanza, tra i Persiani, di discutere le cose serie sempre da ubriachi. Quando pure gli succedeva di farlo da sobri, il costume voleva che tornassero a discuterne ubriachi per verificare la bontà dei risultati).
Una corrispondenza (alquanto sconvolgente) nel modo di concepire il tempo, tra una visione arcaica della cosa, e quella sviluppata dall’odierna gravità quantistica.
Di seguito, dunque, un passo da un vecchio post qua su Crapula e un recente contributo di Carlo Rovelli a TED.
Salute.
Nella lingue neolatine sopravvive l’antichissima ambiguità della coppia tempo-clima, del tutto assente, al contrario, nel ceppo anglosassone (ex. time/weather). Tale ambiguità, presente in latino*, è greca per eccellenza (“īmata diothen”**). In certa misura, tempo è il cielo stesso. E il cielo è dello stesso padrone di quello che piove*** ed adopera il fulmine.
Che hanno capito di tutto questo, mi chiedo, i posteriori “metafisici” della grecità? Meglio meteorologi allora che…
*”Pour le paysan latin, le temps c’est d’abord l’état du ciel” (E. Benveniste, Mélanges, Paris 1940).
** Il giorno è di Zeus.
***Iuppiter pluit.