T’acqueta omai. Dispera
L’ultima volta. Al gener nostro il fato
Non donò che il morire. Omai disprezza
Te, la natura, il brutto
Poter che, ascoso, a comun danno impera,
E l’infinita vanità del tutto.
Giacomo Leopardi – A se stesso
Sono diversi i modi in cui si può offendere qualcuno e sono diversi i modi di considerare quello strano oggetto che è il romanzo. Scommetterei che il miglior modo per insultare Massimiliano Parente e, allo stesso tempo, fraintendere il senso delle sue opere narrative – in particolare quelle che compongono la cosiddetta “Trilogia dell’Inumano” e, specificamente, l’ultimo tassello, L’inumano – è considerarle ‘romanzi’ secondo l’accezione più comune e disinnescata del termine: narrazioni, storie raccontate a un lettore che vuol essere intrattenuto, bisognoso di un passatempo innocuo, inerte. Contro questo lettore e questa idea di letteratura si schiera Parente, ma sarebbe un errore credere che la direzione intrapresa sia quella opposta, la via delle lettere impegnate, ‘civili’, pedagogiche. Tutt’altro.
Con L’inumano, Parente torna, dopo le escursioni in un’Italia distopica e ‘televisivizzata’, spostata di una manciata d’anni nel futuro e ambientazione de La macinatrice e di Contronatura, all’Italia presente e attuale, ugualmente distopica e ‘semi-televisivizzata’, dei premi letterari e delle marchette nei salotti borghesi e catodici (e catodico-borghesi). Il protagonista, risultato da una mise en abîme all’indietro, è lui stesso, Massimiliano Parente, autore di svariate opere, tra cui il romanzo Contronatura, nel quale pure è il personaggio principale e ha scritto le sue opere precedenti, ed è in procinto di scrivere L’inumano, il libro di cui non ha composto ancora una riga ma che viene già candidato dall’editrice Kara Murnau (una chiara trasposizione letteraria di Elisabetta Sgarbi, direttrice editoriale Bompiani) al “premio Strenna”. I riferimenti, più o meno camuffati, a fatti, cose e persone realmente esistenti sono una costante della narrativa di Parente, per non parlare della saggistica che, a eccezione del volumetto dedicato a Marcel Proust, L’evidenza della cosa terribile, è una persistente invettiva contro il demi-monde e la paccottiglia cultural-letterario-televisiva italiana col suo carico di controsensi, ipocrisia, contrapposizioni manichee di stampo calcistico e opinioni sparate alla cieca, senza cognizione di causa.
Il Parente narratore de L’inumano, a ogni modo, non è un calco autobiografico del tutto fedele al Parente autore, nonostante lui ci tenga a sottolineare, quando ne ha l’opportunità, la matrice autobiografica di tutte le sue opere e dei rispettivi personaggi: prima di diventare scrittore, infatti, il Parente del romanzo è stato biologo e ha scritto mediocri articoli scientifici, pubblicati controvoglia dalle riviste di settore perché considerati «troppo letterari» (M. Parente, 2012, p. 50), opera di un autore che non possiede la «pazienza del ricercatore né la passione entusiastica dello scienziato», ma i cui studi scientifici diventano la base di partenza per un’«opera di distruzione della letteratura e di ogni umanesimo». La letteratura diviene, allora, lo strumento ultimo per svelare l’orrore di una realtà biologica senza scopo alcuno, per demolire ogni fallimentare illusione riguardo al finalismo dell’umano, istintuale ‘andare e moltiplicarsi’. Si potrebbe ora aprire una parentesi sulla tracimazione e sulla commistione tra il Parente narratore e il Parente autore, che scorrazza sui social network o su un giornale anacronistico per statuto – risultando, spesso e volentieri, assurdo ma mortalmente simpatico – e si nutre delle stesse reazioni schifate o infuriate che suscitano le sue affermazioni; per domandarsi quanto credito l’uomo Parente, e non la sua controparte letteraria, dia a una riflessione in base alla quale l’unico gesto sensato che l’umanità in quanto specie possa compiere sia il suicidio di massa, avendo raggiunto la consapevolezza terribile dell’inutilità amorale dell’esistenza biologica – che è più o meno la tesi de L’Inumano. Ci troveremmo, probabilmente, di fronte a un vicolo cieco: dividere le due anime di Parente, quella provocatoria, irritante, infantile, iperbolica (e comica) dalla riflessione seria, profondamente filosofica, disillusa, colta, commossa sulle sorti dell’uomo, che ritroviamo anche nel brillante ultimo romanzo, Il più grande artista del mondo dopo Adolf Hitler, significherebbe snaturarlo. Da un autore (da una persona) sui generis come Massimiliano Parente ci si può aspettare il sensazionalismo, la frase a effetto, la presa per il culo indirizzata al lettore, più spesso al commentatore di Facebook, poco avveduto (o, purtroppo, poco intelligente): ma dietro ogni commento sarcastico, dietro ogni articolo in cui si esalti la Kinsella o l’Iphone o la Playstation o il consumo fine a se stesso, a me è parso di ravvisare, in fondo, il dolore di uno scrittore intelligente di fronte alla deriva di stupidità priva di senso in cui l’uomo moderno si ritrova abbandonato. Inquadratolo in questi termini, si può scorgere, sotto i toni da bullo, nei romanzi come in tanti articoli, una dolente e disarmante sincerità.
Tornando a L’inumano, per Parente la letteratura non ha dunque alcun valore, fa parte del vasto corredo di abbagli che l’essere umano si è imposto, fin dalla sua separazione in linea genetica dalla scimmia, per meglio sopportare e nascondere la vastità e l’incomprensibilità dell’orrore che gli si è parato davanti una volta acquisita coscienza del proprio essere-nel-mondo; corredo di cui, ça va sans dire, fa parte integrante la religione, uno dei bersagli preferiti di Parente, mascheramento consolatorio e osceno che egli non perde occasione per additare e deridere, qui e altrove. Dice il protagonista de L’inumano:
Io odio la letteratura, e odio gli altri scrittori, ormai anche i grandissimi, chiunque. Non solo gli scrittori italiani, i giovani, i piccoli e grandi tromboni italiani, ma tutti, non ce n’è uno che fondi la propria estetica fuori dalla propria esperienza e sfondi orizzonti umani fondandosi sulla scienza, sulla biologia evolutiva, sulla paleontologia, sulle filogenesi molecolari, sulla vita nella sua accezione terribile, reale. Non ce n’è uno che non contenga uno spiritualismo di fondo oppure il desiderio di raccontare una storia per raccontare una storia o, peggio, per migliorare la politica, la società, il mondo, e venderti una qualche morale della favola o favola della morale. (M. Parente, 2012, pp. 50-51)
La struttura del libro è tesa, tra l’altro, proprio a dimostrare l’estrema irrilevanza della vita umana in un contesto universale nel quale ogni antropocentrismo e ogni teleologia si rivelano immediatamente per quello che sono, poveri tentativi di un essere che ha avuto la sventura di sviluppare l’autocoscienza ed è prigioniero dei propri istinti; in questo senso, meno progredito – meno intelligente – delle altre forme animali, allo stesso modo prigioniere ma, quantomeno, non consapevoli della caverna di degradabile materialità e marginalità da cui non c’è modo di fuggire, né dell’enormità del passato biologico che ci schiaccia e rende risibile ogni pretesa di importanza, di tutta la vita che è esistita e si è estinta nel silenzio assoluto, prima che l’uomo potesse attribuirle un valore di sorta. L’inumano rimarca di continuo questo concetto, contrapponendo capitoli in un certo senso più ‘canonici’, nei quali si vede Parente impegnato ad ingraziarsi improbabili giurati del “premio Strenna”, tutti decrepiti e pateticamente attaccati ad appetiti sessuali che lo scrittore, con stoicismo nichilista, si presta a soddisfare; o in cui Parente mette insieme indizi e sensazioni nel tentativo, in parte indifferente e quasi divertito, in parte pervaso da una certa ansia, di risalire a ciò che a tutti gli effetti gli sembra un complotto contro di lui da parte di una associazione occulta; a capitoli, scritti in corsivo, in cui lo scrittore è effettivamente finito in mano a persone mascherate che gli infliggono ogni genere di sevizie. Questi episodi recano come titolo i nomi delle ere geologiche e ripercorrono la storia del mondo, dal caos magmatico iniziale alla comparsa dell’uomo: una storia di sofferenza e pura biologia inerme, di fallimenti e morte, amplificata dalle stesse pene e dall’arbitrarietà delle torture patite in prima persona dal protagonista. Torture arbitrarie, sì, ma paradossalmente non prive di scopo: Parente deve arrivare a scrivere – a dettare, parlando in un “buco” nella stanza in cui è segregato – il romanzo definitivo, l’opera dopo la quale non potrà più esserci letteratura, il libro che metta la parola fine a ogni illusione umana, svelando l’errore, l’equivoco di fondo che ha portato l’uomo a considerarsi il centro dell’universo o anche solo, vagamente rilevante; e per farlo deve caricarsi di tutto l’umano patire, di ogni ‘ingiustizia’ perpetrata non tanto dall’uomo, ma dalla vita biologica tout court. Ridotto, nelle ultime fasi del romanzo, a un tronco privo di arti e privo anche della possibilità di suicidarsi, si renderà conto dell’obiettivo del progetto e della scelta non casuale, da parte dell’associazione, di considerare proprio lui il tassello irrinunciabile per questo esperimento terminale. È il passo definitivo, il salto che il Parente di Contronatura non aveva ancora trovato il coraggio, o le forze, di affrontare: momento di evoluzione finale, totale, sacrificio necessario per la caduta di un velo di Maya fatto di opinioni, religioni, velleitarismi, salotti, ipocrisie, letterature. È lo svelamento ultimo della miseria della nostra condizione, oltre il quale l’unico gesto possibile è l’annientamento, la morte, l’estinzione cosciente di una razza che è andata troppo in là, che ha compreso troppo. L’unica via percorribile dopo la morte di ogni illusione è, allora, quella Verso un annientamento volontario: titolo dell’ultimo articolo scientifico scritto dal protagonista prima di dedicarsi alla crociata letteraria e inumana che lo porterà di fronte all’oscena verità dell’esistenza. Tutti i personaggi del romanzo sono coinvolti nella sorta di complotto che condurrà lo scrittore a comprovare l’intuizione già presente nelle sue opere precedenti, a sperimentare sulla sua pelle la lezione ultima sulla specie di cui, suo malgrado, è parte: da Kara Murnau a “Madame Medusa”, già apparsa in Contronatura come lettrice di Parente dalla doppia identità, che lo perseguitava con lettere anonime, riportate integralmente nel testo (lettere che, svela il Parente de L’inumano, erano reali, giustificando la presenza della donna anche nell’ultimo, fatale capitolo della trilogia).
E, tra tutte le comparse del romanzo, solo Parente, irrimediabilmente ‘contagiato’ da una visione scientifica che lo ha dotato dello sguardo giusto, può arrivare a pronunciare l’unica verità possibile; solo lui, umiliato, torturato, infine ucciso come un cane (o un coniglio, o un bambino africano, o qualsiasi altra inguaribile forma di vita), può portare a termine il compito di svelare, col libro che, giorno dopo giorno, detta attraverso il buco nella sua stanza, l’irreparabile, dolente fatalità di essere uomini e averne coscienza.
Bibliografia
M. Parente, L’inumano, Milano, Mondadori, 2012
G. Leopardi, Tutte le poesie, tutte le prose e lo Zibaldone, Roma, Newton&Compton 2012, 2013
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L’articolo è parte di Ô Metis V, Invenzione