Si racconta che Simone de Beauvoir rispose così [“Vous êtes un vilain garçon”] al click della macchina fotografica usata da Art Shay che in quel momento le stava scattando una foto senza chiedere il permesso. Lei non chiuse la porta, non si ribellò, quella frase fu la sua unica risposta. Oggi quella foto può essere considerata simbolo di tutta la filosofia del corpo di una delle più grandi donne del ‛900.
Ma perché e come una foto può rappresentare il pensiero di una filosofa che ha fatto del femminismo e della lotta di genere uno dei punti cardine del suo studio?
Bisogna iniziare, appunto, dal corpo: è di spalle, è già di per sé una nudità accennata e celata, la foto non utilizza lo specchio per mostrare il volto o altro, ma nasconde. È una foto rubata, anche se è nella facoltà del soggetto mostrarsi o meno.
Inoltre la risposta è totalmente nello stile di Simone de Beauvoir: lei sa chi ha davanti, Art Shay è un fotografo, lo è di professione, e Simone de Beauvoir lo lascia agire. Nel ribaltamento dialettico è lei che permette a lui di fotografarla lasciando la porta aperta: l’uomo è appendice della foto; il soggetto nella foto, però, è anche quello fotografato, non solo quello fotografante: fosse stato un dipinto sarebbe stato diverso, il soggetto sarebbe rimasto nell’autore. È nel rapporto tra i due soggetti (fotografato e fotografante) che si genera questa fotografia. È in sé un dialogo, un confronto, un incontro tra modi di pensare e affrontare il mondo dei due corpi, quello del fotografo e quello di Simone De Beauvoir.
C’è da aggiungere che il bagno è un luogo intimo per necessità, ancora una volta lasciare la porta aperta è uno strumento d’accesso all’interno di un mondo che altrimenti sarebbe rimasto inaccessibile per chiunque; in particolare per l’uomo in quanto alterità rispetto alla donna (in una logica binaria, ma non di meno l’altro è necessariamente altro). Da questo punto di vista la foto diventa un dialogo tra due soggetti: uomo e donna in una dialettica di permessi e negazioni.
Il risultato di questo rapporto è in ciò che viene mostrato: un corpo che non è perfetto, ma è in mostra. È il corpo della filosofia, è quello di cui poi avrebbe parlato Jean-Luc Nancy nei suoi scritti e nei documentari che lo vedono protagonista. Nancy ha subito un’operazione chirurgica e da quel momento il suo rapporto con il corpo è diventato determinante non solo per la sopravvivenza, ma per la filosofia stessa. Colui che pensa ha un corpo e, a partire dal corpo e da quello che ha vissuto, genera filosofia o letteratura. Prima di un certo tipo di filosofia, del lavoro di Derrida e prima ancora di Simone De Beauvoir, il corpo era solo uno strumento, lo strumento delle percezioni. Verrebbe da chiedersi quanto era alto il cogito di Cartesio, o di che colori aveva i capelli il Dasein Heideggeriano. Il corpo diventa il corpo della filosofia stessa: non è possibile scrivere, pensare, agire politicamente, senza partire dal proprio corpo. L’influenza di Simone de Beauvoir su Nancy forse è maggiore rispetto a quella esercitata, su quest’ultimo, da Sartre; più in generale, per quello che riguarda le analisi filosofiche costruite a partire dal corpo non solo come strumento utile a percepire il mondo, ma come insieme di sensazioni, influenze, storie e vissuti particolari, l’influenza di Simone de Beauvoir sulla filosofia contemporanea, è più rilevante che non quella dell’esistenzialismo intero; e questo si può vedere anche negli studi di Judith Butler sul corpo come punto di partenza politico. Scrive Butler:
Quando i corpi si radunano in uno spazio pubblico per manifestare la propria indignazione e per rappresentare la propria esistenza plurale, pongono, infatti, domande molto più grandi: chiedono di essere riconosciuti, chiedono di essere valorizzati, esercitano il proprio diritto di apparizione e la propria libertà, e reclamano una vita vivibile. Naturalmente, affinché tali domande possano effettivamente essere recepite come tali devono rispettare alcuni requisiti.[1]
Butler qui parte dal corpo come base essenziale per una politica, non facendo alcuna differenziazione tra idee e corpo.
Possiamo aggiungere ancora due corpi.
Il primo è quello di Simone Weil. Weil ha subito su se stessa, forse molto più di altri, la pratica delle proprie idee, arrivando a patire il lavoro in fabbrica e l’anoressia, arrivando a lacerare, nel vero senso della parola, il proprio corpo. La necessità di essere vicina agli ultimi, politicamente e ideologicamente, portò Weil a esperire la situazione operaia e la fame sino alla morte legata certamente alla tubercolosi contratta, ma aggravata dalla condizione di privazione nella quale decise di vivere.
Il secondo è il corpo di Pasolini. Le foto del corpo martoriato di Pasolini possono essere collocate immediatamente a ridosso della poesia e del cinema pasoliniano. In quel corpo c’è Sodoma, c’è la periferia, c’è la canottiera, oggetto in gran parte scomparso dopo di lui (la si potrebbe intendere alla stregua dell’educazione ricevuta dalla tenda di cui parla nelle Lettere Luterane).
Ma quello di Simone De Beauvoir è un caso diverso: è riuscita a mettere in mostra una pratica originaria, un rapporto tra filosofia, idee, libertà e atto filosofico. La popolarità della filosofa francese è sempre stato il metodo di comunicazione filosofica, era da lì che partiva anche nei suoi scritti biografici [Memorie di una ragazza perbene (1958), L’età forte (1960), La forza delle cose (1963), A conti fatti (1972)] o nei saggi [Il secondo sesso (1949)].
Ecco che questa foto si mostra necessariamente per quello che è: il corpo di una filosofa che non ha nulla da nascondere, che rivendica la propria posizione, la propria libertà, il proprio spazio. E lo fa mostrando un corpo nudo, un corpo che afferma: questo corpo è mio.
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[1] J. Butler, L’alleanza dei corpi, Nottetempo, Roma, traduzione di F. Zappino, pp. 45-46.